La guerra non è più solo sulle armi o sui confini. È una battaglia per la nostra coscienza, la nostra libertà e il futuro dei nostri figli.
Negli ultimi anni, ogni volta che scoppia un nuovo conflitto , che sia in Ucraina, in Israele o nei cieli sopra l’Iran, la narrazione ufficiale è sempre la stessa: si parla di minacce da fermare, regimi pericolosi da contenere, popolazioni da proteggere. Ma appena si grattano le prime righe di questa storia già sentita, quello che emerge è un altro racconto. Un racconto più ampio, scomodo, e per certi versi inevitabile.
L’attacco all’Iran, o meglio: il continuo accerchiamento dell’Iran, non nasce solo dalla paura dell’atomica. Questa è la scusa di facciata. Il vero nodo è strategico, energetico, e soprattutto geopolitico. L’Iran non è solo un nemico comodo: è un ostacolo concreto alla piena dominazione dell’Occidente, un tassello centrale in un’alleanza che va da Teheran a Mosca fino a Pechino. Un’alleanza che si sta strutturando proprio per resistere al sistema guidato dagli Stati Uniti, dal dollaro, dalla NATO.
Allargando lo sguardo, si capisce che i conflitti odierni non sono isolati. Sono come fuochi accesi uno dopo l’altro attorno a un cerchio, che sembra stringersi ogni giorno di più. L’Ucraina è diventata il terreno dove si logora la Russia, drenando risorse, minando la sua influenza sull’Europa, e spezzando i legami commerciali (pensiamo al gas). Il Medio Oriente continua a essere destabilizzato a ondate, mantenuto in una tensione costante che impedisce qualsiasi equilibrio. Intanto si prepara un altro fronte in Asia, con Taiwan usata come esca per provocare la Cina, come se il mondo stesse venendo diviso a metà in vista di uno scontro che finora è ancora “freddo” ma che potrebbe non restarlo a lungo.
Ma il punto più inquietante, se vogliamo essere onesti, non è solo militare. È economico. Le guerre si combattono anche con la finanza, con la tecnologia, con il cibo, con l’informazione. Il sistema economico globale è arrivato al capolinea. Il debito cresce a dismisura, l’inflazione corrode i risparmi, e le disuguaglianze aumentano ogni giorno. Chi comanda questo gioco lo sa benissimo, ma non ha alcuna intenzione di cambiare le regole. Anzi: la strategia sembra quella di far collassare l’attuale ordine per sostituirlo con qualcosa di ancora più controllato. Meno libertà, più digitalizzazione, più sorveglianza.
Non è un caso che si parli sempre più spesso di monete digitali di Stato, con la scusa della sicurezza o dell’innovazione. Sono strumenti perfetti per tracciare ogni spesa, ogni movimento, ogni scelta del cittadino. Il contante è sotto attacco in tutto il mondo, e dietro lo slogan della lotta all’evasione si nasconde qualcosa di più profondo: la volontà di controllare il comportamento umano in ogni suo aspetto, anche economico.
E qui si apre un altro capitolo ancora più delicato. Quello legato alla popolazione mondiale. Alcuni ne parlano apertamente, altri solo tra le righe, ma il tema è sempre lo stesso: il pianeta, così com’è gestito, non può reggere otto o dieci miliardi di persone che vogliono vivere come americani o europei. Da qui nascono teorie, ma anche piani concreti, sulla “gestione” della crescita demografica. In altri tempi li avremmo chiamati eugenetica, oggi si parla di sostenibilità, di ambiente, di risorse limitate. Ma il succo non cambia: c’è chi è convinto che serva una drastica riduzione della popolazione o, quanto meno, del suo accesso alle risorse.
Quando Giulietto Chiesa nel 2012 parlava di una guerra mondiale inevitabile, non lo faceva da pazzo visionario. Lo faceva da giornalista che aveva letto troppi documenti interni, troppe dichiarazioni ciniche, troppi segnali ignorati. La guerra, diceva, sarebbe arrivata non per ideologia, ma per fame. Fame di risorse, fame di potere, fame di sopravvivenza di un sistema ormai marcio ma ancora armato fino ai denti.
E allora, forse, dobbiamo iniziare a guardare tutto ciò che accade con un altro sguardo. Non come episodi scollegati, ma come un’unica tensione globale che va in una sola direzione: la ridefinizione del potere mondiale. Non è più una guerra tra nazioni, ma tra blocchi, tra visioni del futuro, tra chi vuole il controllo totale e chi cerca (faticosamente) un’alternativa.
Questo mondo sta cambiando forma. E dentro questa trasformazione, anche i progetti di redistribuzione, di economia alternativa, di comunità più umane non devono più essere utopie da sognatore ma atti di resistenza. Piccoli, forse. Ma veri. E più urgenti che mai.
Ed è proprio qui, in mezzo a tutto questo rumore di bombe, di crolli finanziari, di manipolazioni mediatiche e crisi costruite a tavolino, che dobbiamo fermarci un momento. Guardare davvero. Non è più tempo di distrarsi, di rifugiarsi nell’ennesimo acquisto, nell’ennesima serie TV, nel prossimo weekend che ci illude di avere ancora tempo.
Non ce n’è più.
Quello che Giulietto Chiesa provava a spiegare, anni fa, con una voce che oggi suona profetica, è che questa guerra ,mondiale, sistemica, invisibile, non arriverà: è già cominciata. È in corso. Solo che non sempre spara colpi d’arma da fuoco. A volte spara attraverso l’informazione, altre volte col denaro, altre ancora con una crisi energetica o sanitaria. Ma il bersaglio è sempre lo stesso: la nostra coscienza, la nostra libertà, la nostra umanità.
E allora la domanda non è più “cosa faranno loro?”, ma: cosa faremo noi?
Perché non tutto è perduto. Ma serve una rottura, una scossa. Serve un cambio di coscienza radicale, collettivo ma anche individuale. Non per moda, non per spiritualismo da salotto, ma per necessità vitale. Non si tratta solo di “salvare il pianeta” che pure è sacro, ma di smettere di alimentare un sistema che ci vuole ciechi, dipendenti, manipolabili, e pronti a farci la guerra tra poveri.
È il momento di togliere il nutrimento a questo meccanismo. Di dire basta al consumismo vuoto, al lavoro alienante, al silenzio colpevole. Non per moralismo, ma per sopravvivenza. Perché non sono in pericolo le generazioni future: siamo in pericolo ora. I nostri figli sono in pericolo adesso. I nostri nipoti stanno crescendo in un mondo che rischia di non essere più vivibile, né giusto, né libero.
Il tempo delle mezze misure è finito. È ora. Ora, e non tra cent’anni, che bisogna scegliere da che parte stare.

Lascia un commento