Oggi parlavo con una collega dei soliti problemi sul lavoro. Mi ascoltava, annuiva, poi mi ha guardato in modo strano. Le ho chiesto: “Che c’è? Ho detto qualcosa di sbagliato?”. E lei, con una semplicità disarmante: “No… è solo che oggi pensavo mi parlavi di qualcosa di bello”.
E lì mi sono fermato. Perché aveva ragione. Parliamo sempre di problemi, difficoltà, preoccupazioni. È diventato il nostro linguaggio quotidiano. Non è nemmeno colpa nostra: ci hanno educato così. I telegiornali ci inondano di notizie nere, omicidi, disgrazie, violenza. Roba che non ha alcuna utilità reale, ma che ci abitua al peggio, ci inchioda nell’idea che il mondo sia solo una discarica emotiva. E peggio: finiamo per imitare questa visione, nel modo in cui parliamo, ci lamentiamo, viviamo.
Ma il punto non è solo quello. Il punto è che anche quando vogliamo parlare di qualcosa di “bello”, lo cerchiamo nel posto sbagliato. La bella casa. La macchina nuova. La vacanza. La carriera. I soldi. E così ci mettiamo a correre dietro a tutto questo, lavorando come muli per comprare qualcosa che ci faccia sentire vivi per cinque giorni all’anno. E poi via, di nuovo nel tritacarne.
E invece no. Le cose belle ci sono. Ma sono altrove. Sono nella risata di un amico. In un fiore sul ciglio della strada che non chiede niente. In uno sguardo. In una parola gentile detta senza motivo. Le cose belle non sono obiettivi, premi, status. Le cose belle sono uno stato dell’essere. Un modo di guardare. E di sentire.
E se oggi, in mezzo a tutte le lamentele, una persona mi ha fatto notare questa cosa, allora forse era proprio il giorno giusto per tornare a vedere.

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