Ci sono esperienze che non si raccontano facilmente. Non perché manchino le parole, ma perché ci si vergogna a pensare che siano esistite davvero. Una di queste è trovarsi a un passo dalla fine. Non per una scelta consapevole, non per un gesto pianificato, ma per una stanchezza profonda, accumulata lentamente, giorno dopo giorno, fino a farti smettere di reagire.
Anni fa, ho imboccato una strada secondaria, senza pensarci troppo. Era un viottolo stretto, con il baratro a pochi centimetri dalle ruote. Quando me ne sono accorto, ho pensato a un colpo di sonno, a una distrazione. Ma il tempo ha tolto il velo: quel sentiero l’ho preso io. Volontariamente. Ero stanco. Svuotato. Non volevo morire, forse. Ma non avevo più voglia di lottare.
Oggi sono in un’altra fase della vita. Ho più consapevolezza, più strumenti. Eppure, a volte, quella stessa sensazione riaffiora. Non sono su un precipizio, no. Ma il peso che porto sulle spalle è simile. Uno stress quotidiano che somiglia a una catena invisibile: bollette, banche, doveri, richieste, scadenze, minacce velate. Un sistema che ti schiaccia in silenzio, mentre pretende che tu sorrida e tenga tutto in ordine.
Il punto è proprio questo: il sistema.
Questa è una società che misura il valore dell’essere umano in termini di produttività, puntualità, efficienza. Non c’è spazio per il dubbio, per l’errore, per il respiro. Chi cade non ha tempo per rialzarsi: deve rimettersi in marcia subito, o verrà schiacciato. Tutti parlano di benessere, ma ciò che viene chiesto ogni giorno è un sacrificio costante. E se ti fermi, anche solo per un attimo, rischi di perdere tutto.
Un tempo, quando ero più giovane, le pressioni arrivavano sotto forma di “maturità”. Dovevi dimostrare di essere pronto, sveglio, furbo. Dovevi adattarti. Dovevi imparare a passare sopra agli altri per ottenere qualcosa. Una logica che premia chi calpesta, e penalizza chi ha ancora uno spazio per la gentilezza, la fragilità, l’empatia.
Chi non accetta di diventare “stronzo” viene visto come un ingenuo. Come se fosse lui il problema. Non il sistema che ti costringe a scegliere tra l’integrità e la sopravvivenza.
Oggi, qualcosa è cambiato in me. Non fuori. Il mondo continua a essere lo stesso. Ma io ho un’arma in più. Non è una corazza. Non è la rabbia. È il silenzio. È il respiro. È la presenza . Un tempo non ce l’avevo. Reagivo a tutto, cercavo di tenermi in piedi a forza. Oggi, quando il peso si fa troppo, mi fermo. Respiro. E ascolto. Anche il dolore, anche la paura.
Questa non è una lezione, né un consiglio. È solo una condivisione. Perché so che là fuori c’è chi si sente allo stesso modo. E voglio dire che non siamo soli. E che no, non è debolezza quella che sentiamo. È il segnale che il nostro cuore è ancora vivo.
Non ho risposte universali. Ma ho un sospetto: se ognuno di noi si concedesse almeno un respiro vero al giorno, il mondo intero sarebbe un posto meno feroce. E forse, piano piano, potremmo trasformare questo sistema non con la rabbia, ma con la presenza.
“La presenza….questa sconosciuta… questa parola da guru..“
Non è solo essere fisicamente in un luogo. È restare, dentro sé stessi. Anche quando tutto spingerebbe a fuggire. Anche quando la testa cerca una via di uscita. La presenza è non andarsene. È sentire il dolore, la paura, il dubbio, e rimanerci dentro, senza fingere, senza recitare.
Presenza è anche respiro. È quel gesto antico e semplice che tiene in vita, ma che troppo spesso viene dato per scontato. Respirare consapevolmente è un modo per dire: “Ci sono.” È un atto di radicamento. Di ritorno. Di rientro.
Nel mondo di oggi, la presenza è una forma di resistenza. Perché chi è presente non si lascia manipolare. Non corre dietro a ogni impulso. Non si spegne sotto la pressione. La presenza rompe il ritmo frenetico.
E quando rompe quel ritmo, succede qualcosa di inaspettato: si apre uno spazio nuovo.
Ed è in quello spazio che accade la vera cura.
La presenza, infatti, non è solo un’arma contro il caos. È anche un aiuto concreto. Per sé e per gli altri.
Essere presenti con sé stessi vuol dire iniziare ad ascoltarsi davvero. A riconoscere i propri limiti, le proprie ferite, i propri bisogni reali. Vuol dire smettere di fingere di stare bene per forza. Ed è da lì che comincia la guarigione.
Ma non solo. Chi è presente a sé stesso riesce, finalmente, a esserlo anche con gli altri. Non più per dovere. Non più per salvare o compiacere. Ma per davvero. Con ascolto autentico, con empatia, con rispetto.
La presenza diventa allora una forma di aiuto profondo, perché chi sta, chi ascolta, chi respira con te nei momenti difficili, spesso salva più di mille parole.
Non sempre si è stati in grado di farlo. In certi momenti, nel passato, quello strumento magari mancava, come è accaduto a me. C’era solo la fuga, il silenzio vuoto, lo sfinimento. Si finiva col prendere strade pericolose, senza nemmeno accorgersene. Non per scelta, ma per mancanza di alternative interiori.
Ma quando ti accorgi di lei, qualcosa cambia. La presenza, quella vera, si fa strada e diventata un’ancora. Un rifugio. Un modo di vivere.
Non come rinuncia. Ma come scelta consapevole di esserci.
Anche nel caos. Anche nella fatica. Anche nella fragilità.
In un mondo che ci vuole reattivi, distratti e sempre un passo più avanti di noi stessi, imparare a stare è l’atto più rivoluzionario. Ma anche il più umano.
Ed è così che si cambia.
Prima da dentro.
Poi fuori.
Per noi.
Per gli altri.
Per il mondo.

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