Zeru Tituli – Puntata “Ecofiaba all’Italiana”

Dove i bambini non vogliono più i giochi di plastica, ma Sanpellegrino vuole salvarli con l’acqua minerale

Oggi nel mare magnum degli zeru tituli – dove le notizie sembrano più interessate a farci piangere per sport che a informarci – una ci ha punto con la sua perla pedagogico-commerciale: il 95% dei bambini soffre di ecoansia. Come facciamo a saperlo? Lo dice uno studio promosso da Sanpellegrino, mica il WWF.Sì, proprio loro: quelli delle bottiglie di plastica che ci vendono l’acqua come oro in flacone. E insieme a un’associazione educativa hanno scoperto che i bambini non dormono, non mangiano, piangono e, probabilmente, rifiutano anche i giochi in plastica

Titolo Originale: Ecoansia: il 95% dei bambini è preoccupato per il futuro del pianeta
Fonte: 9Colonne


La notizia in breve:

Uno studio dal titolo “Ecoansia e nuove generazioni”, promosso da Sanpellegrino in collaborazione con l’associazione ScuolAttiva Onlus e supervisionato dall’Università di Pavia, è stato presentato in Senato lo scorso 27 marzo. Secondo quanto emerso:

  • Il 95% dei bambini italiani tra i 5 e gli 11 anni sarebbe preoccupato per il futuro del pianeta.
  • Il 40% avrebbe avuto incubi o disturbi come insonnia o inappetenza legati a paure ambientali.
  • Il 97% crede che il proprio impegno personale possa fare la differenza.
  • I bambini si sentono responsabili dei problemi ambientali, e questo stress sarebbe direttamente influenzato dalla comunicazione e dall’informazione ricevuta.

I promotori dello studio propongono la creazione di un modello educativo innovativo, da inserire nei programmi scolastici, che aiuti i bambini a gestire emozioni come paura, rabbia e tristezza legate al cambiamento climatico, senza “gravare sugli insegnanti”. La senatrice Simona Malpezzi, promotrice dell’iniziativa in Senato, sottolinea l’importanza di aver dato un nome al fenomeno: ecoansia, che dunque “esiste”.

Secondo la professoressa Serena Barello, dell’Università di Pavia, questi dati mostrerebbero una consapevolezza ambientale significativa nei bambini, vista come potenziale risorsa per attivare comportamenti proattivi, purché supportata da strumenti educativi adeguati.


Facciamo come con il gratta e perdi: grattiamo…

Ah, l’infanzia. Quel tempo felice fatto di giochi, sogni, caramelle e… angoscia climatica generalizzata. Perché sì, secondo questo studio – di cui ci sfugge il rigore scientifico – il 95% dei bambini italiani è preoccupato per il futuro del pianeta. Non fanno che pensare alla CO2 mentre colorano con i pennarelli a base d’acqua. E poi piangono perché la tigre del Bengala è triste mentre sorseggiano un goccio di acqua Sanpellegrino. O almeno così ci raccontano.

Ma attenzione: non si parla di bambini come soggetti da proteggere, bensì come strumenti di comunicazione politica e commerciale. Perché usare un adulto come testimonial della svolta green è da boomer, ma un bambino spaventato è irresistibile: smuove le coscienze, fa versare fondi, giustifica corsi, decreti, progetti e (soprattutto) nuove campagne marketing.

Il bambino è così trasformato nel gadget perfetto della transizione ecologica. E l’ecoansia? Non è un sintomo da curare, ma un capitale emotivo da sfruttare.


Chi ha messo l’ansia nello zainetto dei bambini?

Chi ha comunicato il cambiamento climatico come una catastrofe in atto, anziché un fenomeno complesso (e in larga parte naturale)? Non certo i bambini. Forse genitori confusi e docenti sommersi da progetti scolastici a tema green, magari promossi dalle stesse aziende che poi tappano i rubinetti dell’ambiente.

L’ecoansia nei bambini non nasce nei boschi, né tra i pesci con la plastica nello stomaco. Nasce nelle agenzie di comunicazione, nei centri di marketing istituzionale, nelle campagne educative promosse da multinazionali col bollino verde, e nelle aule parlamentari dove si presentano studi in Senato con l’aplomb di chi sta sdoganando la verità rivelata.

Non sono i bambini a temere il cambiamento climatico. È il mondo degli adulti che glielo inocula a colpi di narrazioni apocalittiche, progetti scolastici emotivamente manipolatori e spot in stile “se non spegni la luce, muore il panda”. E tutto questo senza mai affondare il bisturi su chi davvero devasta il pianeta: la logica del profitto cieco, la produzione senza limiti, la green economy di facciata.

Questi bambini non sono “consapevoli”, sono spettatori forzati di una messa in scena dove vengono usati come testimonial del futuro da salvare. Un futuro che, per ironia della sorte, si continua a distruggere nel silenzio complice dei grandi brand e delle istituzioni che ora piangono lacrime di plastica riciclata sulle loro paure.

Ah, dettaglio non trascurabile: lo studio sull’ecoansia è promosso anche da Sanpellegrino, sì, proprio quella. L’azienda che imbottiglia l’acqua e la spedisce in giro per il globo in milioni di bottiglie di plastica. C’è qualcosa di meravigliosamente grottesco in tutto questo: chi contribuisce all’inquinamento globale finanzia un’indagine sulle paure che quell’inquinamento genera nei bambini.

È un po’ come se McDonald’s sponsorizzasse uno studio sull’obesità infantile . Ma tranquilli, è tutto green. E con le bollicine.


Il paradosso

Secondo il report, il 95,6% dei bambini si sente “responsabile” della crisi climatica. Ora: davvero un bambino di 7 anni può sviluppare da sé un senso di colpa per l’impronta ecologica dell’umanità? O forse questa responsabilità è un prodotto indotto, inculcato, magari da messaggi scolastici, campagne pubblicitarie e narrazioni martellanti in stile “se non ricicli, uccidi il pianeta”?

Qui siamo ben oltre l’educazione civica: siamo in piena operazione pedagogica con forti tratti colpevolizzanti, in cui il bambino, lungi dall’essere accompagnato nella comprensione complessa del mondo, viene trasformato in un mini-adulto missionario della sostenibilità. Peccato però che i veri responsabili della crisi ambientale — governi, multinazionali, filiere produttive — restino in ombra, mentre il dito viene puntato sul comportamento individuale, possibilmente quello del bambino che osa chiedere il panino incartato male.

È una strategia collaudata: trasformare la vittima in carnefice per ottenere un comportamento docile e conformato. E così il bambino non impara a riflettere criticamente sul sistema, ma solo a sentirsi in colpa per ogni sorso d’acqua o cartina di caramella.

Mentre i piccoli vengono indottrinati a temere il sacchetto di plastica, nessuno parla loro della speculazione sull’acqua, delle multinazionali green solo nel logo, delle scelte di sistema che realmente inquinano. L’educazione alla sostenibilità viene ridotta a farsa emotiva, lasciando intatto il vero potere sporco.


La soluzione

Davanti a un dato (discutibile) di ecoansia galoppante, cosa propongono i promotori dello studio? Un “modello educativo innovativo” da inserire direttamente nel curriculum scolastico, naturalmente senza pesare sugli insegnanti (perché si sa, i miracoli in Italia sono sempre dietro l’angolo).

Tradotto: si propone di istituzionalizzare l’ecoansia, normalizzarla e darle cittadinanza stabile nei programmi didattici. Non superarla, non ridimensionarla, non aiutare i bambini a contestualizzare e sviluppare pensiero critico, ma insegnare a gestirla, quasi fosse una componente inevitabile della crescita. Come dire: se non sei ansioso, non sei abbastanza green.

Così, invece di interrogarsi sulle responsabilità sistemiche o sulla qualità dell’informazione ambientale, si introduce un percorso formativo che rischia di scolpire il senso di allarme nella mente dei piccoli. E ancora peggio: si crea un nuovo mercato educativo-emotivo, con aziende (vedi Sanpellegrino) e onlus pronte a fornire “strumenti” per affrontare il problema che loro stessi, con le loro narrazioni, hanno in buona parte contribuito a generare.

Un modello educativo che somiglia molto a una forma elegante di manipolazione mentale: ti convinco che sei parte del problema e poi ti vendo anche la soluzione. In mezzo, l’industria del green-washing applaude, e i bambini imparano a sentirsi in difetto fin dall’asilo.

Altro che crescita civica: qui si sta coltivando un esercito di sudditi emotivamente addestrati.


Concludendo vi confido un segreto.

Osservo i figli dei miei amici. Li vedo ogni giorno: devastati dall’ecoansia, a sei anni già insonni, inappetenti, in preda a crisi di pianto perché temono che la cartina trovata in terra sia l’innesco definitivo dell’apocalisse ambientale. Altro che l’uomo nero, mostri sotto il letto, il vero incubo è il sacchetto di plastica nel cassonetto sbagliato.

Sembra che l’industria del giocattolo sia in crisi perché i bambini non vogliono più i giochi di plastica. Anche quella delle merendine, dei gelati, delle patatine sta messa male perché, sembra, i prodotti sono confezionati con materiali inquinanti. Me lo ha confidato un bambino mentre mangiava una mela biologica da 5€ comprata da mamma al super green store di quartiere, sotto la tettoia in eternit del box auto di papà.

Ma per fortuna c’è chi ha avuto il “coraggio” di dare un nome a tutto questo: ECOANSIA!!!. “Se ne parliamo, allora esiste”, dice la senatrice. Certo, come no. Allora vi do anch’io qualche notizia fresca: su Marte ci sono i marziani, la Terra è piatta e l’asino… vola con le ali di cartone riciclato. E se non li avete mai visti non dubitate, se ne parla quindi esistono.


Le domande del guerriero silenzioso:

Ma davvero vogliamo che i bambini portino sulle spalle il peso della salvezza del pianeta, mentre i responsabili reali continuano indisturbati?

L’ecoansia è una forma di consapevolezza… o una tecnica di condizionamento?

Chi ha interesse a crescere cittadini impauriti e obbedienti invece che critici e consapevoli?

La vera educazione ambientale non dovrebbe partire dalla verità dei fatti, anche se meno spettacolare


Se l’articolo ti risuona rispondi alle domande, ponine di nuove o semplicemente…respiraci su.


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