Immigrazione, accoglienza e ipocrisia

Diario semi-serio di uno sull’ultimo gradino della consapevolezza (e orgoglioso di esserci rimasto)

Facciamoci una domanda banale ma scomodissima:
Accoglieresti in casa tua il primo sconosciuto che ti trovi davanti alla porta?
Cioè, suona il campanello. Tu apri. E fuori c’è uno che non conosci, non sai chi è, da dove viene, cosa vuole. Ha un’aria provata, sì, magari anche disperata. Però, aspetta: lo fai entrare? Gli dici “accomodati, questa è casa tua”?

Dai, non essere ipocrita.

La risposta è no. E lo sai anche tu.
E lo so anch’io.
E non mi vergogno a dirlo.

Nel mondo perfetto dei meme con gattini e Gandhi che abbraccia Mandela, certo, apriremmo le porte a chiunque. In quel mondo di persone illuminate (e intendo dalla prima all’ultima senza eccezione alcuna, il pianeta terra e tutti i suoi abitanti al massimo grado evolutivo), l’accoglienza sarebbe spontanea, sacra, innata. Ma qui, nel nostro bel mondo reale, dove le bollette scadono, lo stipendio basta a malapena, e il vicino non lo saluti da cinque anni, accogliere è una cosa seria. È una scelta da ponderare. E spesso non la fai.

Adesso parlo per me. Io non la faccio e se mi trovo uno sconosciuto alla porta che non mi piace non lo accolgo perché in camera ci sono i miei figli che giocano, perché ho il mio angolo di mondo che mi sono costruito con fatica da dover difendere ma soprattutto perché non lo sento naturale, istintivo spontaneo.

Ora, qui arriva il parallelo che fa tremare i polsi:
perché se non accogli uno sconosciuto a casa tua, dovresti accogliere acriticamente chiunque nel tuo Paese?

Perché casa tua è casa tua. Ma anche il tuo Paese è casa tua. Solo che lì, qualcuno ha deciso che devi accogliere. A prescindere. Senza domande. Senza sapere chi arriva, perché arriva, cosa farà, come vivrà.

Se lo fai, sei un eroe civile.
Se non lo fai, sei un razzista. O peggio, un fascista. E magari pure ignorante, sporco e cattivo.

Benvenuto nel regno dell’accoglienza forzata.

A casa tua, fortunatamente, nessuno ti obbliga ancora a spalancare la porta. Lì sei libero di scegliere. E magari, se sei più su di qualche gradino nella scala della consapevolezza, la porta la apri a qualcuno che conosci. A un amico in crisi. A un parente in difficoltà. Accogli con criterio, con cuore, ma anche con testa.
Perché l’accoglienza non è solo ospitalità.
È compassione, nel senso vero: “sentire con”.
Ti immedesimi, capisci, ti dai da fare.

Ma se chi hai davanti è un’incognita, se non conosci la storia, il vissuto, l’intento, la lingua… beh, la compassione resta sulla soglia.

E allora la domanda vera diventa:
Se nel piccolo siamo prudenti, perché nel grande ci si vuole santi?
Perché se non facciamo entrare il senzatetto sulla soglia, dobbiamo aprire le braccia al migrante sbarcato ieri?

Perché nel piccolo ci guidano le emozioni. Nel grande, l’ideologia.

Nel grande c’è tutto un mondo che ti dice come devi pensare:

  • il politico in giacca sartoriale che non ha mai messo piede in un centro d’accoglienza,
  • il prete con la sciarpa arcobaleno che predica dall’attico della diocesi, e poi ha stanze su stanze vuote in canonica.
  • il volontario da Instagram che fa le foto coi profughi e poi va al sushi col SUV.

Loro sono i buoni.
Tu sei quello sull’ultimo gradino. Che guarda, valuta, e magari dice:
“Aspettate un attimo… ma siamo sicuri che funzioni così?”

… non funziona così.

L’Italia ha accolto – e continua ad accogliere – con un entusiasmo schizofrenico. Barconi, ONG, redistribuzioni, Sprar, Cas, premi, bonus, case popolari, sanità. E nel frattempo a Mario, che prende 1500 euro, paga un mutuo da 700, un assegno all’ex da 500, e campa con 300, nessuno regala nulla.
Ma se apre bocca, è un egoista becero che “non ha capito lo spirito dell’accoglienza”.

Siamo pieni di spirito. Ma non sappiamo accogliere.

Perché accogliere davvero significa essere preparati.
Significa avere strutture, piani, integrazione vera.
Significa sapere chi arriva, da dove, perché, e soprattutto cosa succede dopo.
E qui casca il tutto. Perché lo Stato non lo sa. E non gliene importa. Perché, diciamolo francamente, qualcuno ci guadagna di brutto.

Siamo diventati l’unico condominio al mondo in cui il portinaio non fa domande. Apre. Sempre.

E così dentro entra di tutto: il rifugiato vero e quello finto, il lavoratore onesto e il delinquente seriale, l’impresa familiare e il clan.
Non lo diciamo e non lo ammettiamo perché non sta bene. Perché è brutto. Perché non è “elevato”.

Già, l’elevazione.

Perché c’è una scala della consapevolezza, no?
In cima ci sono loro. I missionari del pensiero unico.
E giù, sotto il pianerottolo, ci sono io. E magari anche tu.
Gente che pensa ancora che prima di aprire una porta bisognerebbe sapere chi sta bussando.

Non per cattiveria. Ma per coscienza. Perché anche accogliere ha un limite:
quello della dignità, della sostenibilità e, sì, anche della sicurezza.

E ora? Che si fa, visto che il danno è fatto?

Quelli che sono qui, ci restano. Alcuni si sono integrati. Bravi. Lavorano, producono, rispettano.
Ma molti altri vivono ai margini, o addirittura contro.
Vivono di espedienti, sfuggono al controllo, offendono le regole del paese che li ospita.
E allora? Che si fa?

  • Li cacciamo tutti? Impossibile.
  • Li accettiamo tutti? Suicida.
  • Facciamo finta di niente? è quello che stiamo facendo.

Oppure… iniziamo a distinguere.
Iniziamo a fare come a casa nostra.
Guardiamo in faccia chi bussa.
Ascoltiamo, valutiamo.
Accogliamo chi ha bisogno e voglia di far parte di questa casa.
Ma diciamo no – chiaro, netto, deciso – a chi entra per distruggere.

Smettiamola con l’ipocrisia da salotto.
Torniamo a parlare come esseri umani, non come spot elettorali.
Perché se c’è una verità semplice è questa:

Se non sei pronto ad accogliere uno sconosciuto a casa tua, forse non sei pronto nemmeno a farlo nel tuo Paese.

E non è razzismo.
È realtà.
È consapevolezza.
È, finalmente, onestà.


Per concludere

Questa accoglienza imposta dall’alto, dalle poltrone imbottite del politicamente corretto, non è bontà. È scenografia di Stato, è postura da passerella etica. E i più zelanti sono quelli che ti urlano “razzista!” se solo osi dire che l’immigrazione dovrebbe essere regolamentata, sostenibile, reale. Loro sì che sono i veri buoni. O meglio, i buoni da tastiera, da talk show, da corteo con bandiere arcobaleno… e SUV parcheggiato in seconda fila.

Allora, cari campioni dell’accoglienza a tutti i costi, fatevi una domanda semplice semplice (che poi è la stessa con cui ho aperto l’articolo).

Se domani quel tizio al parco, quello seduto sull’altalena dove dovrebbe giocare tuo figlio, che aspetta qualcuno per smerciare l’ennesima dose, ti suona al campanello e ti chiede ospitalità… tu che fai? Lo fai entrare?

Rispondi. Dai. È facile.
Se dici no, e continui a dare del razzista a chi chiede solo buon senso, sei un ipocrita.
Perché pretendi da un’intera nazione ciò che tu stesso non saresti disposto a fare nella tua casa.

E se dici , beh… allora complimenti.
Sei un’anima elevata, un santo contemporaneo. Uno che accoglie chiunque senza domande, senza filtri, senza nemmeno sapere se ti svuoterà casa o ti ringrazierà con un coltello in mano.
Sei puro. Ma anche pericoloso. Perché in un mondo reale fatto di confini, regole, equilibri fragili, la bontà cieca è solo un altro modo per creare caos.

E alla fine, lo capisci anche tu:
la vera ipocrisia non è dire no.
È dire sì a tutti in nome di tutti per la casa di tutti… tranne casa tua.


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