“Trump vuole la pace in Ucraina, ma alle sue condizioni. Putin dice: la guerra l’ho vinta io. E l’Europa? Si riarma come un videogiocatore frustrato.” Intanto, impazza il totoconclave e sullo sfondo scorre – ignorato – un genocidio in diretta.
Benvenuti nella post-verità geopolitica, dove la pace è una moneta di scambio e l’etica internazionale è solo un meme per ONG e influencer da salotto. Trump dice di voler la pace. Ma attenzione: non perché sia un colomba illuminata che sogna Woodstock tra i tulipani. No. Lui vuole una pace da vincitore. In stile “fate i bravi, vi lascio respirare ma vi ficco il mio ordine mondiale su per il camino”. Zelensky, ovviamente, non può cedere troppo (pena il linciaggio mediatico e forse fisico), e Putin – il vecchio orso imperiale – se la ride: “Se ho vinto, detta legge chi ha messo i carri armati, non chi ha fatto i TikTok.”
Nel frattempo, l’Europa fa l’Europa: piagnucola in pubblico, fa la morale sul diritto internazionale, ma intanto compra cannoni. La Germania, che a scuola ci hanno insegnato a temere come il male assoluto del ‘900, oggi viene incensata come “locomotiva democratica” e inizia a parlare con naturalezza di riarmo, servizio militare obbligatorio, difesa nucleare comune. Ma se uno fa due più due e guarda indietro di 80 anni, gli viene da chiedersi:
Non è che questo riarmo europeo stia passando per le stesse tappe narrative di allora, ma con una nuova mano di vernice?
La Russia, intanto, manda segnali come un vecchio padre stanco:
“Ci siamo già fatti ammazzare in 25 milioni per fermare il nazismo. Non ci provate.”
E mentre l’Occidente grida all’orso russo, tollera i battaglioni nazisti (chiamandoli “difensori della democrazia”), si volta dall’altra parte di fronte al genocidio in Palestina, dove le immagini e i crimini non hanno bisogno di propaganda: parlano da soli. Trump su Israele zitto, Biden anche. L’ONU? Impotente come sempre. Il “mondo libero” difende chi bombarda ospedali, ma lancia sanzioni a chi si fa giustizia da solo.
E quindi dove siamo finiti?
Siamo nella realtà schizofrenica dove:
- Il male si ridipinge ogni giorno, a seconda di chi lo racconta.
- La guerra è male, ma solo se non l’hanno iniziata i tuoi amici.
- La pace è giusta, ma solo se porta al tuo dominio.
Aggiungiamo l’ultima spezia al minestrone geopolitico: un conclave che si apre mentre la NATO sbatte i pugni, la Russia digrigna i denti e l’Europa si stringe attorno al tavolo delle armi e del riarmo (debito).
Coincidenze? Forse. Ma storicamente, certi “reset spirituali” coincidono curiosamente con i cambi di direzione geopolitica. Quando cambia il timoniere della fede, spesso cambia anche il vento tra i palazzi del potere. E quindi no, non è solo il segno che l’Avellino viene promosso.
Ora, qui serve una precisazione netta:
non confondiamo Bergoglio l’uomo, con Papa Francesco il simbolo. L’uomo è apparso spesso autentico, empatico, fragile, con gesti di prossimità. Ma il Papa, inteso come attore sulla scena globale, ha indossato i panni del facilitatore dell’agenda dominante. Altro che bastone del pellegrino.
Un esempio emblematico? Il pontificato di Francesco, costruito su gesti simbolici, frasi a effetto e aperture “pastorali” che piacciono più alle redazioni dei giornali che alle sacrestie. A prima vista sembra la Chiesa del dialogo, della misericordia, della fraternità universale. Ma appena si gratta la superficie, si scopre una pastorale appiattita, ambigua, perfettamente allineata alle agende globali.
Papa Francesco ha forse cercato di “modernizzare” la Chiesa, di renderla più accogliente, più inclusiva, più appetibile anche a chi è portatori di valori e di credenze che co il cristianesimo c’entrano quanto una campagna pubblicitaria con una preghiera. Il risultato assomiglia a quello di uno studente che, per farsi ben volere dalla prof, copia dal libro e scrive quello che tutti vogliono sentirsi dire. Salvo poi tornare a giocare alla Playstation delle relazioni pubbliche globaliste.
Frasi come “Chi sono io per giudicare?”, i piedi lavati ai migranti davanti ai flash, la Pachamama nei giardini vaticani, le carezze ai dittatori che perseguitano cristiani, il silenzio su Hong Kong, il plauso alla governance mondiale, e infine la consacrazione del vaccino come “atto d’amore”… non sono semplici scelte pastorali. Sono tasselli di una narrativa accomodante, una diplomazia spirituale che non evangelizza ma si adatta, un management ecclesiale che rinuncia a dire la verità pur di restare invitato al tavolo dei potenti.
La Chiesa, in nome del “dialogo”, ha lavato i piedi a chi le chiude le chiese. Ha parlato d’inclusione mentre i cristiani venivano massacrati. Ha stretto mani e firmato accordi con chi spegne i crocifissi per non turbare il partito.
E nel frattempo, si è seduta sul trono di una teologia leggera, ecologica, gender-friendly, dove la Croce diventa un simbolo tra tanti e il Vangelo un’opzione etica, non una chiamata radicale.
È stata la Chiesa del dialogo col potere, degli accordi col Partito Comunista Cinese, del silenzio su persecuzioni di cristiani, dell’apertura verso ogni “nuova umanità” tranne quella che difende la Tradizione.
Un papa degli ultimi, sì… ma mai scomodo per i primi.
E ora che si apre un conclave in questo scenario incandescente, cosa ci dobbiamo aspettare?
- Un Papa globalista 5G-ready, trilingue e green, che si fa fotografare con Greta e Von der Leyen?
- Oppure un conservatore reazionario, da usare come spauracchio da chi vede in ogni rosario un complotto?
In entrambi i casi, sarà uno scacchino della grande partita globale. Perché oggi, chiunque sieda su una cattedra così alta, non potrà più essere solo spirituale: sarà inevitabilmente anche geopolitico.
E il rischio è che il nuovo Papa non segni il risveglio della Chiesa, ma l’upgrade dell’alleanza tra sacro e potere mondano. Magari non più per convertire il mondo, ma per gestirlo.
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