“Energia, ambiente e verità scomode: come uscirne vivi (e con la bolletta pagata)”

In Italia parlare di energia è come parlare di calcio, ma con meno competenza e più ideologia. Da una parte i fanatici del “tutto rinnovabile subito o siamo morti”; dall’altra, i nostalgici del carbone che sognano ciminiere come se fossero cattedrali della modernità. In mezzo? Il deserto. Eppure, proprio in quel deserto ci sarebbe bisogno di costruire qualcosa di serio.

Partiamo da un fatto: la CO₂ non è il demonio. Non è nemmeno un gas tossico. Anzi, le piante la adorano. Il problema è che ne stiamo buttando nell’atmosfera più di quanto la natura possa digerire, come se ci fosse un open bar permanente a base di fossili. Questo sta alterando il clima in modo non catastrofico (per ora), ma decisamente fastidioso: eventi estremi, siccità, incendi, e un crescente senso di “non si capisce più niente”.

Poi c’è la questione delle rinnovabili. Splendide sulla carta, e anche nella pubblicità dell’Enel: sole che splende, vento che soffia, bambini che giocano felici sotto una pala eolica. Peccato che nella realtà servano accumulatori grandi quanto hangar militari, terre rare estratte da miniere con condizioni da romanzo distopico, e impianti vasti quanto comuni interi. Ah, e se non c’è sole né vento? Beh, si spera che ci siano nuvole ottimiste e brezze patriottiche.

L’auto elettrica, intanto, viene presentata come la salvezza. Ma attenzione: la CO₂ non sparisce, si sposta. Niente tubo di scarico, ma centrali a gas per ricaricare. E batterie da cambiare dopo qualche anno, sempre prodotte dove non si fanno troppe domande su salari e diritti. Le città saranno pure più silenziose, ma il rumore lo sentono in Congo. E comunque, è l’idea stessa di dover cambiare auto ogni dieci anni il vero nodo, più che la fonte energetica. Magari invece investire sul trasporto pubblico, no?

Già, perché una politica energetica seria non può prescindere da una riforma profonda della mobilità. Più treni locali, più bus efficienti, più piste ciclabili sensate (quelle vere, non i cordoli dell’umiliazione). E soprattutto, mezzi costruiti con materiali sostenibili e meno energivori: perché non ripensare i veicoli pubblici usando fibre naturali come la canapa, il lino o altre biofibre? Non è questione di nostalgia hippy: sono materiali leggeri, robusti e con una produzione a basso impatto.

Questo tipo di approccio non è marginale, è strategico. Perché meno peso significa meno consumo, meno emissioni, più durata. E in un mondo dove ogni grammo di CO₂ conta, anche il materiale con cui costruiamo i sedili dei treni ha la sua importanza. Serve una filiera intelligente, locale, che crea lavoro e taglia le dipendenze da fornitori a 10.000 km di distanza.

E il nucleare? In Italia evoca reazioni tipo Dottor Inferno: non si può nemmeno nominare altrimmenti spunta un mostro meccanico a quattro teste e Mazinga non l’abbiamo ancora inventato. Peccato che sia una delle fonti più stabili e a basse emissioni esistenti. Le scorie? Gestibili. I costi? Alti, sì, e soprattutto i tempi: ci vogliono decenni, non mesi. Non è una soluzione per domani mattina, ma potrebbe essere parte del mix, se gestito seriamente. Non è per forza la soluzione giusta per tutti, ovunque, subito. Ma nemmeno il mostro che ci hanno raccontato.

Ecco il punto: ogni paese ha le sue condizioni, le sue risorse, la sua storia industriale. Pensare che ci sia una soluzione unica è un’illusione pericolosa. L’energia è una questione di contesto. Ciò che serve davvero è un approccio progressivo, intelligente e adattivo. Nessun dogma, nessun tabù. Solo realismo.

C’è poi la cosa più divertente: nessuno vuole gli impianti, ma tutti vogliono l’energia. È il classico miracolo italiano: il NIMBY (Not In My Backyard) applicato al sistema elettrico nazionale. E così restiamo a discutere se siano peggio le pale che rovinano il paesaggio o le centrali che rovinano la salute. Intanto, continuiamo a importare, a inquinare, e a indignarci alternativamente.

La verità? Servirebbe un tavolo serio. Un luogo dove progressisti e conservatori, ambientalisti e industriali, si siedano e si dicano in faccia le cose come stanno. Dove si accetti che il sole non splende sempre, che il gas non è gratis, che il nucleare non è Satana (ma nemmeno l’ Arcangelo Gabriele), e che ogni opzione ha un prezzo. Economico, ambientale, sociale.

E accanto alle tecnologie, serve educazione civica sull’energia: come consumare meno, come evitare gli sprechi, come ridurre la dipendenza dalle fonti esterne. La vera transizione è anche culturale.

Perché in fondo, dietro tutte queste scelte energetiche, c’è sempre la stessa domanda: chi paga? E per ora la risposta è semplice: noi. Col portafoglio, con l’aria che respiriamo e con il tempo perso in dibattiti da bar camuffati da piani industriali.

La buona notizia? Una transizione energetica vera si può fare. La cattiva? Nessuno vuole davvero iniziarla se non può vincere qualche voto, vendere qualche gadget ,salvarsi la faccia o incassare parecchi quattrini. Ma almeno, se cominciassimo a parlarne senza urlare, sarebbe già un mezzo miracolo.

La verità, si sa, sta sempre nel mezzo — proprio lì, dove nessuno guarda perché non fa notizia, non porta voti e non buca lo schermo. Diffidate di ciò che è troppo complicato per essere spiegato senza cinque grafici e due lauree, ma anche di ciò che sembra risolversi con uno slogan stampato su una t-shirt biologica. Soprattutto adesso.

In questo caos servono meno influencer e più cervelli: scienziati veri, ingegneri con le mani callose di numeri, economisti che non vivano su Excel, geologi che sappiano distinguere una faglia da una fake news. Gente che, davanti a una crisi energetica e ambientale, non si limiti a twittare un meme ma si sieda e faccia i conti.

Perché le soluzioni, volendo, esistono. Solo che non gridano, non fanno comizi, e non si vestono da supereroi. Bisogna zittire un attimo il frastuono dei poteri forti (quelli veri, e quelli che si atteggiano a vittime) e smettere di gridare al lupo ogni volta che qualcuno propone qualcosa di sensato ma impopolare. Il futuro non si costruisce a colpi di hashtag. Serve solo il coraggio — e un po’ di silenzio operativo — per andarsele a prendere, quelle soluzioni. Magari prima che si spengano pure le luci.



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