Viviamo in una società che ti spinge a comprare per sentirti qualcuno.
Ma più compri, più ti perdi.
Più ti costruisci, più ti allontani da chi sei davvero.
L’identità è diventata un vestito, non una pelle.
Una collezione stagionale, non una verità eterna.
Ti insegnano sin da piccolo che sei ciò che possiedi.
Il tuo zaino a scuola.
Il tuo cellulare.
Il tuo abbigliamento.
La tua macchina.
Il tuo lavoro.
La tua casa.
E così, pezzo dopo pezzo, costruisci una maschera sociale che costa.
Costa soldi, tempo, energie, ansia.
E più la costruisci, più hai paura che crolli.
Più temi di non essere “abbastanza”.
Abbastanza ricco.
Abbastanza performante.
Abbastanza attraente.
Abbastanza produttivo.
La tragedia è che non ti dicono mai quando lo sarai.
Il traguardo si sposta sempre un po’ più in là.
Così continui a correre. A comprare. A inseguire.
Perché è proprio questo il meccanismo:
se ti convinco che ti manca qualcosa, ti venderò tutto.
Non importa se sei infelice.
Basta che consumi.
Ma l’inganno è più sottile:
non ti vendono solo prodotti.
Ti vendono sogni.
Ti vendono chi dovresti essere.
Ti vendono modelli.
Volti. Corpi. Stili di vita. Successi da esposizione.
E tu, mentre li insegui, perdi pezzo dopo pezzo la tua voce interiore.
Non sai più se ti piace qualcosa perché ti rappresenta…
o solo perché lo vedi dappertutto.
Ti costruiscono un bisogno…
e poi ti offrono la soluzione.
Ti danno l’insicurezza…
e poi ti vendono l’autostima sotto forma di brand, chirurgia, status.
Ma a che serve “valere” in una società malata?
A che serve “realizzarti” se il fine è diventare uno schiavo ben vestito?
C’è un momento, se hai fortuna, in cui qualcosa si incrina.
Un prodotto che non ti basta.
Un ruolo che non ti nutre.
Un successo che ti lascia vuoto.
E lì inizi a sospettare.
Forse non eri tu a volerlo.
Forse ti è stato installato.
Ti rendi conto che l’identità non è un’armatura.
È una presenza viva, mutevole, vera.
E che non si compra.
Non ha un logo.
Non ha un prezzo.
Ma per trovarla, devi disfare tutto.
Fare spazio.
Disintossicarti dalla pubblicità che ti porti in testa.
Dalla voce che ti dice cosa devi volere, come devi essere, a cosa devi aspirare.
Devi fare silenzio.
E restare.
In quella zona scomoda in cui non sei più nessuno.
Ma è proprio lì, in quel vuoto, che riemergi.
E allora forse capisci:
che l’identità vera non si costruisce.
Si ricorda.
È lì da sempre.
Solo che te l’hanno coperta di roba.
Ma puoi tornare.
Puoi smettere di rincorrere.
E iniziare a riconoscerti.
Non in ciò che possiedi.
Ma in ciò che sei quando nessuno ti guarda.
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