Il virus della coscienza


C’è un momento, ogni tanto, in cui il rumore si spegne. Una frazione di secondo tra una notifica e una bolletta, tra un dovere e l’altro, in cui ti fermi e ti chiedi: “Ma davvero tutto questo è vita?”

Non quella idealizzata, da film patinato o da guru motivazionale da discount. Parlo della vita vera. Quella che ti svegli la mattina e senti già il peso addosso, quella che ti fa correre senza sapere bene perché. Quella che ti consuma mentre pensi di star costruendo qualcosa, ma in fondo, non sai nemmeno cosa.

Ti guardi attorno e vedi miliardi di vite-fotocopia. Nasci, cresci, studi, lavori, paghi, ti ammali, vai in pensione (forse), poi muori. E mentre scivoli lungo questa rotaia obbligata, ti raccontano che sei libero. Libero di scegliere tra due partiti che dicono le stesse cose. Libero di comprare mille varianti della stessa noia. Libero di esprimere opinioni che non cambiano nulla. Libero, insomma, come una pedina sulla scacchiera di qualcun altro.

Ma allora, qual è il senso? Possibile che un’intera civiltà dotata di coscienza, creatività, immaginazione… viva come un branco di replicanti?

Il paradosso è ovunque. Viviamo in un mondo in cui la scarsità è una farsa. C’è più cibo di quanto serva, più case di quante ne servano, più conoscenza di quanta si possa assorbire. Eppure la povertà cresce. La solitudine dilaga. Le persone lavorano più ore, hanno meno tempo, meno relazioni, meno senso.

Come è possibile? Perché accade? E soprattutto: perché continuiamo a permetterlo?

I pochi che hanno tutto, non mollano nulla. Non per bisogno. Ma per principio. Per mantenere l’equilibrio tossico in cui l’essere umano non deve evolvere. Perché un essere umano che si conosce, che sente, che sa di non essere qui solo per consumare… quello è ingestibile.

E forse è proprio questo il punto: il vero nemico del sistema non è l’ignoranza, ma la coscienza. L’evoluzione interiore fa paura.

Il paradosso più sottile è proprio qui: l’evoluzione più potente è gratuita. Non serve tecnologia. Non serve un brevetto. Non serve un’autorità che te la conceda. Serve solo uno sguardo onesto dentro. E forse proprio per questo è l’unica evoluzione che viene ostacolata.

Ma allora, perché? Perché un sistema intero, una rete globale, un meccanismo transgenerazionale, insiste a schiacciare l’essere umano?

Forse non è solo avidità. Forse è paura.

La paura che l’essere umano possa ricordarsi chi è davvero. Perché se anche solo una piccola parte di noi si risveglia… il gioco finisce. Il castello crolla.

E allora viene il dubbio: e se ciò che muove tutto questo non fosse solo umano?

Forse ciò che ci tiene in basso è qualcosa che si nutre della nostra paura, della nostra ripetizione, della nostra frammentazione. Qualcosa che si perpetua attraverso generazioni, culture, abitudini, strutture. Un virus della coscienza. Una coscienza antica, forse, che ha paura della luce.

La luce delle nostre parti inconsce. Quelle che abbiamo dimenticato. Delegato. Proiettato.

E allora il mondo non è altro che uno specchio. Uno specchio immenso e crudele, che ci riflette proprio ciò che non vogliamo guardare. Che ci mostra ogni giorno il prezzo della nostra distrazione, del nostro compromesso, del nostro delegare, del nostro silenzio.

Magari è questo il vero meccanismo: il mondo esteriore riflette le catene che portiamo dentro. I padroni fuori sono l’eco delle paure dentro.

La grande illusione è che siano loro a controllarci. La verità, forse, è che loro sono come il mago di Oz si limitano a venderci illusioni e darci uno specchio e noi glielo lasciamo fare,

Perché?

Paura? Comodità? Ignoranza?

E se la vera rivoluzione fosse semplicemente guardarsi dentro? E se bastasse spegnere per un attimo il rumore, e ascoltare?

Allora la vera domanda non è: “Quando cambierà il mondo?” Ma: “Quando cambieremo noi?”

E soprattutto… siamo davvero pronti a farlo?



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