Lei si sentiva confusa, e non le piaceva, come non le piaceva rincorrere, abituata com’era ad essere rincorsa. Era sempre stata una locomotiva che trainava tutti dietro a sé e non aspettava nessuno. A casa come fuori, da piccola, da adolescente e da grande. Sicura di sé, non si lasciava convincere a far niente che non volesse fare da nessuno.
Cresciuta in una famiglia borghese, padre colto, madre pure, la seconda di tre sorelle che più diverse non potevano essere. E si notava subito la differenza, non foss’altro che per l’aspetto fisico: alta, dai capelli mori, magra anche nelle forme, dal naso aquilino che sporgeva su labbra scarne, circondate da guance scavate e zigomi sporgenti che facevano da altare a due occhi di un azzurro acceso e vivo, che sembravano elementi intrusi in un contesto decisamente più desolato e spento. La primogenita aveva preso tutto dal padre.
Alta ma decisamente più robusta, la terzogenita, dagli occhi verdi e dai capelli biondi, che facevano da cornice a un volto pulito e fresco, dai lineamenti dolci e dalle gote paffute che incutevano simpatia al primo sguardo. Giusto a quello, perché nell’aspetto, come nel carattere, era la fotocopia in scala di sua madre, persona autoritaria, apatica, permalosa, ambiziosa, fredda e calcolatrice, dotata di una mente di prim’ordine che però si era scordata di trasferire, la sua unica tangibile virtù, nella scatola cranica dell’ultima nata. Non si rammaricava mai abbastanza nel vedere tanta stupidità in quel volto che riproduceva fedelmente le sue giovani sembianze, e odiava profondamente chi, reduce e memore di quei tempi lontani, le ricordava quella straordinaria somiglianza, come se tutto si riducesse al semplice aspetto fisico.
E poi c’era Lei, con i suoi capelli rosso ribelle, mossi quasi ricci, dagli occhi neri, profondi, espressivi, vivaci, presenti, energici, furbi e curiosi, con quel nasino solo leggermente accennato che introduceva labbra definite, incorniciate da due fossette che si facevano più profonde quando sorrideva. Lei non poteva che assomigliare a Lei, matrice e stampo di se stessa, prima, unica e probabilmente irripetibile, come amava pensare di sé. Diffidate dalle imitazioni. E come poterla imitare? In tante ci avevano provato fin da piccola: le compagne di classe, le compagne di gioco, le compagne di tutto, ma anche da chi, per invidia – sempre figlia di un’ammirazione nascosta – e senza ammetterlo, aveva cercato di emularla.
Il suo non poter essere controllata ammaliava femmine in cerca di sicurezza, ma allontanava irrimediabilmente i maschietti più inclini a frequentare caratteri più manovrabili. Era in totale antitesi con la nascita delle cheerleader all’italiana, e di accorciare la gonna, alzare la gamba, sventolare pon pon per far sentire più fighi i Fonzie nostrani in piena fase di tempesta ormonale che sganciava grandinate di bolle sui loro volti, non gli passava neanche per l’anticamera del cervello. Al contrario, pensava che quella massa di giovani adolescenti, dalla voce grave, dall’odore sgradevole e dalla peluria matta che spuntava copiosa un po’ alla rinfusa, doveva mettersi in ginocchio e pregare, in ogni lingua e religione, di essere degnata almeno di uno sguardo da chi apparteneva a un genere superiore, in piena, fiorente e profumata evoluzione.
Aveva imparato a scrivere prima ancora di parlare, e provato a correre prima ancora di camminare. Bruciare le tappe, anticipare i tempi, era nella sua natura, e niente di quello che le accadeva a scuola, come in altri contesti, la coglieva impreparata. Non che sapesse tutto, non poteva, ma sapeva molto all’interno di quel mondo e di quella piccola e limitata realtà, che tutti credevano prima o poi non le sarebbe bastata più. Ma non lei. A lei piaceva e ci stava bene, in quella dimensione, anche se alla lunga la solitudine poteva diventare una compagna troppo ingombrante per il suo carattere affamato di persone da dominare.
Il suo piccolo mondo era composto da un unico grande quartiere, che non aveva bisogno di difese, circondato com’era da mura che ne segnavano senza il minimo dubbio il confine. Erano ammessi visitatori, ma non nuovi inquilini. E quei pochi che riuscivano a restare dovevano accettare innumerevoli condizioni e regole da seguire, dettate da una lunga tradizione che, di generazione in generazione, nessuno aveva osato interrompere.
Così era anche per la sua vita: tu potevi conoscerla, perché lei ti faceva entrare, ma se volevi restare lo dovevi fare alle sue condizioni, che non sempre erano lineari e semplici da comprendere. Da bambina, questo suo lato non poteva essere colto né da lei né da chi le faceva da tutore, ma i sintomi c’erano, le avvisaglie pure.
Quella volta, al parco vicino alla cattedrale, Lei sentì un lamento. Andò incontro a quel pianto che disturbava la sua concentrazione, intenta com’era a percorrere in equilibrio quel benedetto tubo dell’acqua, maldestramente lasciato fuori da qualche addetto alla manutenzione. Naturalmente, non era l’unico motivo: Lei aveva bisogno di controllare che tutto suonasse alla perfezione, e se qualche orchestrante usciva dallo spartito, lei lo correggeva immediatamente. Non dava spazio ad altre interpretazioni che non fossero la sua.
Si trovò di fronte una bambina disperata, cui avevano portato via la palla, e il volto di una madre che cercava disperatamente parole di consolazione invece di andare poco più in là, a recuperare dignità e pallone. Poco più in là, dove un branco di bambini prendeva a calci il trofeo, che passava di piede in piede, accompagnato da un coro di hola, quasi a celebrare il trionfo in una battaglia di cui era stato fin troppo facile aver ragione.
Questo fu il loro peccato: la supponenza porta all’errore, e restare nei paraggi del maltolto non era stata una saggia decisione. Lei non si fece sfuggire l’occasione. Si avvicinò con fare naturale, mentre scrutava i volti dei teppistelli in cerca del capobranco. Non ci mise molto a individuarlo e si diresse decisa verso di lui.
«Di a quegli idioti di smettere di urlare, mi danno fastidio»… pausa… sguardo… posizione.
«Di a quegli idioti di restituirmi il pallone, è di mia sorella, e mio padre è un carabiniere».
Quelle parole, all’apparenza scontate, ma accompagnate da quell’espressione indolente, come se fosse passata centinaia di volte da quella situazione, disarmarono il malcapitato, che non profuse parola, ma con un semplice fischio e un breve cenno del capo ordinò ai suoi compagni di fare come Lei voleva.
Quando entrava in gioco, non ammetteva repliche: l’avversario aveva da subito la sensazione che lei dettasse le regole e anticipasse le mosse. Non riuscivi a capire come facesse, e intuivi soltanto una cosa: il finale non ti sarebbe piaciuto.

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