Una volta la gente campava di quello che faceva con le mani. C’era chi arava la terra, chi aggiustava un tetto, chi portava il pane al forno. Si viveva male, magari, ma si capiva cosa valeva una giornata di lavoro. Poi vennero quelli coi vestiti buoni e le parole strane. Dicevano che avrebbero fatto girare più soldi, che avremmo avuto tutti di più. Ma i soldi non li facevano con la zappa o col martello: li facevano con la penna, con il timbro, con dei numeri scritti su fogli che valevano più del grano e del vino. E a poco a poco la gente lasciò fare.
Oggi quei numeri si muovono in posti che non vedi. Si spostano da una parte all’altra del mondo in un soffio, e ogni volta che si spostano c’è qualcuno che si arricchisce senza fare niente. Non piantano un albero, non costruiscono una casa, eppure comandano su chi l’albero lo pianta e la casa la tira su mattone su mattone. Noi, intanto, a lavorare e pagare, e quando non ce la facciamo più, loro vengono a prendersi il resto. È così che va, e loro lo sanno bene: finché stai nel loro gioco, perdi.
E chi sono, questi “loro”? Non li vedi nei campi, non li incontri al mercato, non li trovi a spaccare legna d’inverno o a riparare un muro dopo la pioggia. Stanno in palazzi alti, dietro vetri scuri, con le mani lisce e le tasche piene. Parlano lingue che non capisci, decidono quanto vale il grano senza averne mai toccato una spiga, fissano il prezzo dell’acqua senza aver mai portato un secchio sulle spalle. Ci sono le grandi banche che fanno e disfano come vogliono, i signori degli affari che comprano e vendono il lavoro degli altri come fosse bestiame, e quelli nei governi che, invece di difendere la gente, aprono la porta e li fanno entrare.
Hanno il mondo in mano, e non è un modo di dire. Hanno in mano il denaro, e quindi decidono quanto costa vivere. Hanno in mano il commercio, e possono chiudere o aprire mercati come si chiude e si apre un portone. Hanno in mano i governi, e se un capo di Stato non piace, lo cambiano senza sparare un colpo. Hanno in mano l’informazione, e ti fanno credere vero solo quello che gli conviene. Hanno in mano l’acqua, l’energia, le medicine: le cose senza cui non si campa. Non c’è bisogno che alzino la voce o minaccino: basta un loro cenno e un paese intero si piega.
E non pensare che cambierà, perché loro hanno fatto le regole e sono gli unici a sapere come si gioca. Quando qualcuno prova a ribellarsi, lo fanno sparire dalle notizie, lo tolgono dal mercato, lo lasciano a secco finché non si inginocchia. E la gente, quella che lavora e suda, continua a credere che un giorno andrà meglio, che basterà stringere i denti e aspettare tempi migliori. Ma i tempi migliori, per chi vive qui sotto, non arrivano mai. Arrivano solo per chi sta lassù, dove l’aria è pulita e il pane non manca. E allora si va avanti così, ognuno piegato sul proprio pezzo di terra, col pensiero fisso a tirare a domani, mentre loro, dall’alto, decidono quanti domani ci saranno.
Qualcuno dice che non c’è niente da fare, che loro sono troppo forti, che il mondo è com’è e basta. Forse è vero che non li puoi buttare giù, ma li puoi lasciare lì, fermi, a guardare. Come quei signorotti che, se non gli paghi il dazio e non gli compri la roba, restano con le mani in mano. Perché loro campano di quello che facciamo noi: se smetti di comprare da loro, se smetti di chiedere permesso a loro per vivere, iniziano a scricchiolare.
Non serve la rivoluzione coi fucili, serve la rivoluzione della schiena dritta. Serve che il pane te lo fai da solo, che l’orto lo curi con le tue mani, che quando ti serve qualcosa cerchi prima chi ce l’ha vicino a te invece di cliccare e farlo arrivare da chissà dove. Serve che il lavoro torni a essere scambio, non catena. Piccole comunità, piccole mani che si aiutano, gente che si conosce per nome e non per numero di conto.
Non succede in un giorno. Ci vogliono tempo, pazienza e un po’ di ostinazione. Ma piano piano, se siamo in tanti, il loro gioco diventa inutile. E un giorno, magari, si svegliano e si accorgono che i fili che tiravano non muovono più nessuno. Non perché li abbiamo tagliati, ma perché ci siamo spostati tutti un passo più in là, fuori dalla loro rete. E lì, per la prima volta, non sono loro ad avere in mano il mondo, ma il mondo ad avere in mano se stesso.

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