C’era una volta (e c’è ancora)… la verità imposta
Partiamo da quello che ci hanno sempre raccontato. La storia base è semplice come una favola per bambini, ma con la colonna sonora del senso di colpa.
Dio crea il mondo in sei giorni (un’impresa notevole, tra l’altro senza nemmeno bisogno di Google Maps o AutoCAD), e al settimo si riposa – che già questo dovrebbe farci riflettere su quanto sia faticoso creare un universo. Poi prende un po’ di fango, plasma l’uomo (Adamo), e siccome lo vede solo e spaesato, gli regala una compagna (Eva), estratta da una sua costola. Per inciso: nessuno chiede il parere di Eva. È lì, punto.
E qui arriva la famosa “cavolata”: il serpente, la mela, la disobbedienza. Tutti elementi altamente simbolici, ma che sono stati trattati nei secoli come cronaca nera. Risultato? L’umanità intera viene cacciata dal paradiso terrestre, con tanto di punizioni eterne: dolore, sudore, fatica, parto, morte. Insomma, benvenuti nel reality chiamato “Esistenza Umana”.
Da quel momento in poi, la narrazione prende la piega della colpa ereditaria: nasciamo già contaminati. Non importa se hai due giorni di vita, sei già segnato da un peccato che – tecnicamente – ha fatto qualcun altro. E non solo: Dio pare offeso, molto offeso, e per millenni pretende sacrifici, offerte, riti, e sottomissione.
Poi arriva Gesù. Il figlio di Dio, dicono. Inviato per “salvare l’umanità”. Come? Facendosi ammazzare in croce. Una morte violenta, atroce, in nome dell’amore e del perdono. Il paradosso qui è evidente: per salvarci da una colpa che Dio stesso ha decretato, Dio manda suo figlio… a morire. Una mossa che neanche Shakespeare avrebbe osato scrivere. Il tutto mentre ci si aspetta che tu – umano – provi riconoscenza eterna, commozione costante e un sano senso d’inferiorità.
Ed ecco che nasce la Chiesa, non quella comunità spontanea dei primi cristiani, ma un’istituzione strutturata, gerarchica, potente. Un’organizzazione che ti spiega cosa puoi e non puoi fare, pensare, credere. Che ti accompagna dalla nascita alla morte, che decide chi è santo e chi è peccatore, che stabilisce chi può parlare di Dio (solo gli uomini, ovviamente) e chi può solo ascoltare.
Tu vuoi avere un rapporto diretto con il divino? Ti dicono che non puoi. Non sei “idoneo”. Serve un intermediario, un prete, un confessore. Tu vuoi leggere i testi sacri e capirli da solo? Ti rispondono che potresti fraintendere, meglio se li interpreta qualcun altro. Tu senti l’impulso di servire Dio a modo tuo, magari come donna? Lascia stare: puoi essere suora, ma niente prediche, niente messe. Partorisci santi, sì, ma non puoi parlare in chiesa.
La coerenza di tutto questo? Appesa a un filo.
E che dire del celibato imposto ai preti, che Gesù non ha mai chiesto? (A dirla tutta, nemmeno ha mai chiesto di fondare una religione. Ma vabbe’, una cosa alla volta…). L’idea nasce secoli dopo, più per ragioni patrimoniali che spirituali: niente figli, niente eredi, il patrimonio resta alla Chiesa. Ma si insegna come se fosse legge divina.
Predicano povertà, ma vivono in palazzi. Invocano pace, ma hanno benedetto guerre. Parlano d’amore, ma mettono paura. E così l’annuncio liberante del Cristo – “la verità vi farà liberi” – viene imbavagliato da un’istituzione che ti dice che la verità non sei tu a cercarla, ma loro a dartela (se ti comporti bene).
In sintesi: ci hanno raccontato una versione della storia dove tu sei sbagliato in partenza, devi espiare, pagare, sottometterti. Dove il divino è un premio da conquistare con fatica, regole, e rinunce.
Un po’ come se la vita fosse una lunga verifica scolastica in cui sei nato col voto già in rosso. E chi corregge il compito? Loro.
Non ti ricorda un po’ la storia del debito pubblico? Eh sì, nasci già indebitato fino al collo, per un debito che non hai fatto tu, che nessuno ti ha spiegato, ma che – ti dicono – dovrai comunque pagare. E sai qual è la parte migliore? Che non si può mai estinguere davvero, solo “gestire”. Proprio come il peccato. Ah, la modernità… stessi schemi, solo con altre parole.
C’era una volta (e c’è ancora)… un’altra verità
Intorno al II secolo d.C., la situazione del cristianesimo era tutt’altro che unitaria. Altro che Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. C’erano comunità ovunque: in Siria, in Egitto, in Asia Minore, in Grecia, e ognuna aveva la sua visione, i suoi vangeli, le sue pratiche. Non c’era ancora un “Papa”, ma maestri, profeti, pensatori, e sì, anche qualche mistico che oggi chiameremmo fuori di testa. Ma tra questi, alcuni avevano qualcosa da dire che avrebbe potuto cambiare tutto, se solo non fossero stati spazzati via dall’ortodossia nascente.
Tra le visioni più affascinanti – e pericolose, per chi voleva controllare le masse – c’era lo gnosticismo. E no, non era una setta unica: era una corrente di pensiero, un modo di vedere il mondo radicalmente diverso da quello promosso dalla futura “Chiesa ufficiale”.
Lo gnosticismo, spiegato senza paroloni
Partiamo da un’immagine semplice: immagina di svegliarti un giorno in una casa che non riconosci. Tutti ti chiamano con un nome che non senti tuo, ti danno un lavoro, delle regole, e ti convincono che quella è la tua vita. Ma dentro di te c’è qualcosa che non torna. C’è come un’eco, una nostalgia inspiegabile, un’ansia che non sai da dove viene. Questo, per uno gnostico, è il segnale che sei addormentato. Che hai dimenticato chi sei.
Secondo lo gnosticismo, in ognuno di noi c’è una scintilla divina, un pezzo del Vero, del Tutto. Ma questo frammento è stato intrappolato in un mondo falso, illusorio, ingannevole. Un mondo creato non da Dio, ma da un Demiurgo: un’entità inferiore, spesso descritta come arrogante, ignorante, o addirittura malvagia.
Chi è questo Demiurgo? Alcuni lo identificavano con il Dio dell’Antico Testamento: geloso, vendicativo, ossessionato dalle regole e dai sacrifici. Un Dio che ti punisce se non lo adori, che ti manda carestie, guerre, piaghe. Insomma, il classico controllore cosmico. E per loro, non era il vero Dio.
Il vero Dio, quello che non ha bisogno di essere adorato né temuto, era qualcosa di diverso: invisibile, inconcepibile, amore puro, luce. Ma troppo lontano per agire direttamente. Così, in mezzo a questa confusione, siamo finiti noi: esseri divini dimentichi della propria origine, imprigionati in corpi, menti, ruoli, obblighi e – perché no – mutui trentennali.
Gesù: non il Salvatore dei peccati, ma il Risvegliatore delle coscienze
E qui arriva Gesù, ma non quello biondo con gli occhi azzurri che benedice i pastorelli nei presepi. No. Qui Gesù è il Messaggero della Verità, il Risvegliatore. Non è venuto a morire per i tuoi peccati, ma a dirti: “Tu non sei questo. Questo mondo ti ha mentito. Sei luce, sei spirito, sei eterno.”
La sua missione? Farci ricordare chi siamo. Dirci che non c’è nulla da meritare, nessuna colpa da espiare, nessuna croce da portare in eterno. Solo da svegliarsi e tornare a casa.
Per questo non fonda una religione. Non chiede templi, riti, dogmi. Non scrive manuali. Parla in parabole, usa simboli. Perché il risveglio non si insegna: si provoca. Si suggerisce. E non è per tutti, almeno non subito. Chi ha “orecchie per intendere” capisce. Gli altri… un giorno magari.
Il problema? L’ortodossia non poteva permetterlo
Una dottrina che ti dice: “Sei già divino, non hai bisogno di mediatori” è una minaccia enorme per chi sta costruendo una Chiesa. Perché se tu puoi accedere direttamente al divino… a che ti servono i preti? I vescovi? I sacramenti? I sensi di colpa?
Lo gnosticismo, infatti, viene rapidamente bollato come eretico. I vangeli che contenevano queste idee – come il Vangelo di Tommaso, di Filippo, di Maria Maddalena – vengono scartati, nascosti, o distrutti. Solo nel 1945, con la scoperta dei manoscritti di Nag Hammadi, abbiamo potuto leggerli di nuovo. E no, non parlano di inferno, paradiso, né di peccati mortali. Parlano di conoscenza interiore, di luce, di liberazione.
In pratica, la religione ufficiale cancella una versione del cristianesimo in cui l’uomo è libero, potente, responsabile della propria salvezza, e la sostituisce con una in cui sei colpevole, impotente e hai bisogno di essere guidato – guarda caso – da loro.
Vita reale: lo gnosticismo lo viviamo ancora oggi
Pensa a quanti lavori fai solo per pagare le bollette. A quante cose compri per colmare un vuoto che resta. A quante volte ti sei chiesto: “Ma io, che ci sto a fare qui?”.
Lo gnosticismo ti risponderebbe: “Stai dormendo, fratello. Ma dentro di te c’è la risposta. Basta ascoltare.”
Hai presente quando sei in vacanza in mezzo alla natura, o guardi un tramonto e ti senti parte di qualcosa di più grande? Ecco, quella sensazione, per uno gnostico, è un piccolo risveglio. Un barlume della tua vera natura.
Ma poi torni a casa, c’è il mutuo da pagare, il capo che urla, la pubblicità della crema anticellulite che ti fa sentire sbagliato… e torni a dormire.
Gnosticismo e il rischio dell’élite spirituale
Ora, attenzione: lo gnosticismo non è perfetto. Uno dei suoi limiti era ed è proprio questo senso di élite spirituale. L’idea che solo “alcuni” abbiano la scintilla, o solo pochi “illuminati” possano capire davvero. E questo – diciamolo – puzza di arroganza. Come se la verità fosse per pochi, e gli altri si arrangino.
Questo atteggiamento lo ritroviamo anche oggi: nelle nicchie spirituali dove si parla difficile, si guardano tutti dall’alto in basso, e si crea un altro tipo di religione… quella degli “svegli” contro i “dormienti”, che poi è solo un’altra forma di separazione.
Per questo, lo gnosticismo va preso come intuizione, non come dogma. È utile per aprire la mente, non per fondare un nuovo club esclusivo.
Forse allora la domanda non è: “Chi ha ragione?” Ma: “Cosa possiamo salvare di entrambe, adesso?”
Dall’ortodossia – se la spogliamo delle sue impalcature di potere e dei dogmi incrostati nel tempo – possiamo riprenderci qualcosa di profondamente umano: il valore del gesto condiviso, del pregare insieme, del creare comunità intorno al sacro. Il canto corale, le mani che si stringono, il silenzio che si fa spazio tra le parole: sono momenti che ricordano che non siamo soli nel nostro cercare. L’umiltà, in questo contesto, non è più sottomissione cieca o paura del castigo, ma diventa disponibilità ad ascoltare, a riconoscere che il mistero ci supera, e che a volte possiamo solo starci dentro, senza pretendere di dominarlo.
Dallo gnosticismo, se lo liberiamo dall’élitismo e dalla tentazione di “sapere meglio degli altri”, possiamo salvare il coraggio di mettere tutto in discussione, anche le verità più antiche. Possiamo recuperare la memoria dell’anima, l’idea che dentro ognuno di noi ci sia qualcosa che sa già, che ha solo bisogno di essere ricordato. Possiamo riscoprire la dignità del pensiero che cerca, del dubbio che non distrugge, ma purifica. Della conoscenza non come possesso, ma come via di ritorno.
Forse – a dirla tutta – Dio non ha mai voluto né templi d’oro, né labirinti teologici, né gerarchie, né codici di accesso per “eletti”. Forse è sempre stato lì, nascosto nei luoghi più semplici: in un abbraccio sincero, in un tramonto che ti mozza il fiato, in una domanda che ti fa tremare: “Chi sei davvero?”
E forse è arrivato il momento di smettere di dividere il mondo tra giusti e sbagliati, svegli e dormienti, puri e impuri. Ogni divisione spirituale è solo un’altra forma di ego. Un altro tentativo di sentirsi “dalla parte giusta” e, quindi, superiori.
Forse – più onestamente – siamo tutti in cammino. Tutti fragili, tutti in cerca, tutti con i nostri momenti di luce e i nostri periodi di buio. Confusi, imperfetti, contraddittori. Ma anche capaci di bellezza, di amore, di intuizioni luminose.
E questo – a ben vedere – è già qualcosa di profondamente divino.
Ops…dimenticavo il senso della vita…
Imparare a sentire Dio dentro e fuori di noi. Ovunque. Nel mondo.
Nel corpo che abitiamo, nelle mani che tendiamo, nello sguardo che accoglie e non giudica. In un gesto gratuito, in un dolore che apre, in una bellezza che non ha motivo di esserci e invece c’è.
Sentire Dio non come un premio da meritare, ma come una presenza che già ci attraversa. Non come un’entità lontana, ma come l’intelligenza vivente di ciò che è. Una brezza, una voce, una scintilla. Dentro. Fuori. In mezzo. Intorno.
Forse il senso della vita non è capirlo. È viverlo.
Con tutti i nostri dubbi, le nostre crepe, le nostre cadute. Ma con lo sforzo sincero – anche solo per un attimo – di riconoscere il divino che si nasconde in ogni cosa.
E magari, proprio da lì, può iniziare un altro tipo di verità. Non imposta. Non nascosta. Ma sentita.

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