Pasqua 2025: il rumore del mondo nella settimana santa

Ah, la Pasqua. Quel periodo dell’anno in cui siamo tutti un po’ più “santi”, giusto? Così tanto da spenderne ben 8 miliardi di euro. Per cosa? Per dimostrare che siamo in grado di comprare l’affettato più pregiato, l’uovo di cioccolato che pesa quanto un elefante, e quel volo a Sharm el-Sheikh che ti fa sentire davvero vicino a Dio. 248 euro a testa, che per molti di noi sono un semplice “costo da mettere in conto”, per celebrare con stile la resurrezione del Signore. O, più verosimilmente, la resurrezione del portafoglio vuoto dopo l’ennesima “offerta imperdibile” su internet.

La Pasqua dovrebbe essere un’occasione per fermarsi, riflettere sulla vita, sulla morte, sulla spiritualità. E invece? Beh, è il momento perfetto per una bella gita all-inclusive con tanto di pranzo a base di agnello a 50 euro a piatto e pernottamento in un albergo dove, evidentemente, il WiFi è più importante di qualsiasi altra divinità. La messa? Quella è solo un fastidio da superare per sentirsi moralmente a posto, in tempo per tornare a casa e scatenarsi su Instagram con foto di gamberetti e champagne.

Davvero, la Pasqua ora è un rito che non ha nulla a che fare con la resurrezione, se non per il fatto che la nostra voglia di consumare sembra resuscitare ogni anno più forte di prima. Un’occasione per darci una pacca sulla spalla e dirci: “Ottimo, quest’anno ce l’hai fatta, il consumismo ti ha proprio conquistato!”

Mentre i nostri conti in banca si svuotano a velocità supersonica, c’è un piccolo dettaglio che tendiamo a ignorare: chi paga veramente per la nostra “Pasqua perfetta”? Beh, non sono certo quelli che si godono il pranzo con noi. Quelli che rendono possibile la nostra abbuffata sono lavoratori invisibili nei paesi del cacao, nelle piantagioni di caffè, nei campi dove i bambini lavorano per raccogliere la frutta che mettiamo nei nostri dolci. Ma ovviamente, non è che ci interessi troppo: chi ha tempo per pensare a chi ci fa guadagnare la possibilità di postare foto dei nostri piatti eleganti su Instagram?

Siamo occupati a godercela, dopo tutto. Quindi, al diavolo le condizioni di lavoro e il sudore altrui, basta che l’agnello sia tenero e il prosecco non costi troppo. D’altronde, siamo una società che celebra la risurrezione della carne (e del denaro), ma non ha tempo di risorgere in termini di coscienza

E mentre noi ci preoccupiamo di quanto sia difficile scegliere tra il volo a Bali o quello a Miami, qualcun altro sta lavorando a ritmi infernali per assicurarci che tutto questo sia possibile. E loro non hanno neanche il lusso di fare una “pausa spirituale”. Nei paesi poveri, dove i lavoratori sono sfruttati per raccogliere le materie prime che alimentano la nostra abbuffata, non ci si ferma mai, nemmeno per un momento di riflessione. Eppure, ogni singolo prodotto che finisce sulle nostre tavole è stato realizzato grazie al loro lavoro, invisibile ma fondamentale. E noi? Non ce ne accorgiamo nemmeno.

La realtà è che il nostro lusso alimentare si fonda sul loro sacrificio quotidiano. Ma no, non vogliamo pensarci. Non ora, che dobbiamo assolutamente essere a tavola in tempo per il pranzo e non possiamo rischiare di perdere il dolce.

La nostra Pasqua, insomma, è un’occasione per sentirci “in pace” con noi stessi mentre sferziamo i nostri portafogli e ci godiamo una tregua da quella vita grigia che chiamiamo quotidianità. Ma non è divertente, vero? Il viaggio che facciamo non è verso la spiritualità, è verso il “chi ha il miglior pranzo da postare”. Non c’è riflessione profonda, c’è solo il bisogno spasmodico di avere più cose, più esperienze, più gratificazione immediata.

E la messa, quella mezz’ora in cui tentiamo di sembrare veramente “puri”? Ah, sì, quella è solo un’altra tappa obbligatoria per farci sentire meno in colpa per aver appena comprato l’ennesimo cappello da pasqua griffato. Un piccolo “lavaggio della coscienza” per il consumatore che, tra una fotina con il pranzo e un altro piatto di agnello, si sente in dovere di alzare lo sguardo al cielo e dire “Grazie, Signore, per avermi concesso di consumare così tanto senza fare troppi danni. Amen.”

Beh, sarebbe ora “cambiare” il nostro approccio alla Pasqua, forse dovremmo smettere di prendere tutto a cuor leggero. O forse no. Potremmo, per esempio, rinunciare a uno dei nostri mille brunch, fare una riflessione sul vero significato della festa e darci una possibilità di “resurrezione” autentica. Ma chi ha voglia? La realtà è che la Pasqua è più comoda se la ignoriamo, se la rendiamo una scusa per sfogare le nostre frustrazioni consumistiche. E se qualcuno ci fa notare che c’è un altro mondo, quello vero, dove le persone soffrono, beh… non c’è tempo. La settimana bianca ci aspetta.

Ecco, la resistenza non è in piazza con i cartelli. No, la vera lotta si gioca nel silenzio. Non bisogna urlare. Basta non farsi inghiottire dal sistema. Basta non cadere nella trappola. Ogni piccolo gesto che rinuncia al consumismo è una piccola vittoria. Una resistenza invisibile, che non grida e non fa rumore. Forse, la vera guerriglia è proprio quella di riuscire a vivere senza consumare ogni cosa che ci viene offerta.

(Fonte dati Ansa e Confcommercio relativi all’anno 2024)


Per concludere…

Ci rendiamo conto che ormai tutte le feste, sacre o meno, sono diventate come l’ora d’aria per i carcerati. Te la concedono per toglierti qualche giorno dalla routine infernale che è la quotidianità moderna. Una pausa breve, sì, ma sempre sotto il controllo di qualcuno. E forse, è addirittura un’ora d’aria meno libera di quella del carcerato, perché, anche se limitato dai muri della prigione, almeno lui può decidere cosa fare o pensare. Noi no. Siamo altrettanto limitati da una gabbia, quella invisibile dei bisogni indotti, che ci schiavizza anche nei giorni in cui pensiamo di essere liberi di volare via. Ma in realtà, facciamo quello che ci dicono loro: compriamo quello che ci suggeriscono, andiamo nei posti che ci vendono e voliamo via in luoghi che hanno già deciso per noi. E poi, concludiamo tutto con un bel “Amen”. Così, giusto per farci sentire a posto.


Si consiglia il lettore di leggere la Nota


Che senso ha ricordare il sacrificio di un uomo che ha sfidato il sistema e difeso i deboli, se poi passiamo questi giorni ad arricchire proprio quel sistema che lui avrebbe smascherato?

In che momento la croce è diventata un simbolo da indossare e non un peso da comprendere, da sentire sulla pelle, nel silenzio dei nostri gesti quotidiani?

Le domande del guerriero silenzioso:

Come possiamo parlare di resurrezione, se non siamo disposti a far morire nemmeno per un attimo la parte di noi che consuma senza chiedersi il prezzo umano e spirituale di ciò che compra?

Che valore ha una celebrazione spirituale, se il nostro spirito è assente, distratto, anestetizzato da promozioni, viaggi e vetrine addobbate a festa?


Se quello che hai letto ti risuona rispondi alle domande, ponine di nuove o semplicemente respira.


Tags:


Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *