Ci sono giorni che sono voragini. Giorni che ti sgretolano l’anima, lasciando solo il sapore di un mondo putrido.
E il marcio, lo cerchiamo fuori, e il mondo ce lo serve, compiaciuto, su un piatto d’argento. Ma la verità è un coltello: il marcio va estirpato da dentro.
Da quel cancro familiare, che striscia tra le mura di casa, da chi hai amato, da chi meno te lo aspetti.
Poi ci sei tu. Con la tua anima bombardata, ridotta a macerie come un edificio nella Striscia di Gaza.
Perché è la stessa guerra.
“Come in cielo, così in terra.”
Come osiamo invocare pace nel mondo, se siamo i primi a firmare trattati di resa con chi ci devasta l’anima?
Quelle battaglie intime, invisibili, sono il genocidio del nostro essere.
Ed è qui, nel cuore di questa guerra non dichiarata, che nasce la stanchezza.
Non la stanchezza del vivere, ma la stanchezza di essere “buono”.
Buono e plasmato. Buono e complice. Buono e silente.
Buono secondo un copioso che non hai scritto tu.
Questa “bontà” non è virtù: è la trincea in cui ti sei nascosto, è la garza marcia su ferite mai disinfettate. È la violenza che non lascia lividi ma che, lentamente, ti ha spinto verso l’orlo.
E fuori, da quell’orlo, il Guerriero non è nato.
È nato lì, in quell’istante sospeso.
Un istante prima del cedimento.
Un atomo prima che la voglia matta di saltare diventasse azione.
Con un piede già nel vuoto e la mano del fallimento che spingeva sulla tua schiena.
In quel silenzio che precede la fine, non è esploso un grido.
È nato un respiro.
Un respiro profondo, l’unica arma rimasta.
Un atto di amore feroce e primordiale per la vita che ancora pulsava.
E in quel respiro, il Guerriero ha detto il suo primo e unico “No”.
Non al nemico, non al mondo.
Alla fine.
Da lì riparte.
Non da eroe incoronato, ma da sopravvissuto.
Da essere umano che ha guardato l’abisso, ha sentito il suo richiamo—e, con l’ultimo briciolo di forza, ha scelto di fare un passo indietro, verso la vita.



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