Cronache dal fronte della sopravvivenza moderna (con un miracolo alla fine)

Ci sono giorni in cui ti svegli già stanco. Nemmeno apri gli occhi, e ti pare di essere passato sotto un rullo compressore durante la notte. Ma non uno di quelli nuovi, tecnologici, silenziosi. No: un modello del ’72, arrugginito, rumoroso e pure incazzato. Ti alzi lo stesso, perché vivere ,oggi , non è tanto un diritto, quanto un dovere. E mica uno leggero. Un dovere faticoso, di quelli che si pagano a rate. Magari con interessi.

Vai a lavorare. E il lavoro… oh, il lavoro. Quella roba che da bambini ci facevano sembrare una cosa nobile, addirittura identitaria. “Che cosa vuoi fare da grande?” dicevano. Nessuno ti ha mai chiesto “Che tipo di schiavitù vuoi scegliere?” che sarebbe stato più onesto. Ti ritrovi a svolgere un’attività che non senti tua, ma che ti tiene incollato alla realtà con la forza di un mutuo e la grazia di una tenaglia da fabbro.

Fisicamente sei a pezzi. Mani gonfie, dolori muscolari, articolazioni che scricchiolano come vecchie sedie di legno. Crampi. Mal di schiena. Tachicardia. Ogni tanto ti chiedi se sei ancora vivo o se sei diventato un ammasso semovente di acciacchi e doveri. Ma vai avanti. Perché? Perché sì. Perché cosa vuoi fare, smettere? Non si può. Si deve. Si va avanti.

Poi c’è lei, la Regina di Cuori: la banca. Sempre attenta, sempre presente. Un tempo ti mandava persino gli auguri per il compleanno. Un piccolo gesto che diceva “sappiamo chi sei, quanto ci servi”. Quest’anno nemmeno quelli. Ma in compenso, i tipi del recupero crediti, loro sì che ti pensano. Con affetto. Il telefono suona con regolarità millimetrica: lunedì mattina, martedì mattina, mercoledì, giovedì e venerdì. Sabato no, perché anche l’usura ha il weekend. Ti chiedono come stai, se sei in salute, e  casualmente , se puoi pagare. Quando dici di no, il tono cambia. E pure il vocabolario. Minacce, insulti, pressione passiva-aggressiva. Tu cerchi di restare calmo, anche se in realtà sogni di prenderli a calci nel modem. Perché sai che se perdi la pazienza, perdi tutto.

Il lavoro è un frastuono continuo. Le macchine fanno un rumore così assordante che un giorno ti accorgi che da un orecchio ci senti a metà. Come se fosse un lusso anche sentire. L’aria che respiri? Un cocktail di polvere, stanchezza e smog, shakerato male e servito caldo. Respirare diventa un atto eroico, non una cosa scontata.

Eppure… torni a casa. Ti fai una doccia. E in quei dieci minuti, qualcosa cambia. Ti senti rinascere. Come se quell’acqua, oltre al sudore, si portasse via anche la merda invisibile: la frustrazione, l’umiliazione, il rumore, l’ansia. Per dieci minuti sei un dio. O almeno un essere umano. Quasi ti viene da piangere, da quanto ti senti pulito. E no, non parlo solo del corpo.

Ora, non è che mi piace piangermi addosso. Ma dove voglio arrivare? A questo: se riesco io, con tutta questa roba addosso, a fare un po’ di spazio dentro mentre il mondo mi crolla addosso, allora può riuscirci chiunque. Non è un’esagerazione. È una verità semplice e bastarda.

Ho imparato che respiro e silenzio non sono solo concetti da manuale di mindfulness per manager stressati. Sono salvagenti. Quando impari a respirare anche nell’aria pesante, e a trovare un grammo di silenzio anche nel tritacarne del rumore, stai salvando la tua anima. Non tutta in una volta. Ma abbastanza da poter dire: “Ci sono ancora”.

E qui accade il vero miracolo. Perché quando fai spazio, quello spazio diventa sacro. Una fenditura nella parete, una breccia nello scafo. In quello spazio entra la prima cosa utile: l’autoconforto. Una specie di voce interna che ti dice “ehi, ci sono anch’io”, che ti consola senza pietà, ma con onestà. Poi arriva anche qualcos’altro: un’energia diversa. Piccola, flebile all’inizio. Ma viva. Ti viene voglia di muoverti, di agire, di non restare lì a subire come sempre.

Questo non risolve tutto. Il lavoro fa ancora schifo, la banca ti chiama ancora, le macchine fanno ancora casino. Ma tu sei diverso. Hai uno spazio interno che prima non c’era. Uno spazio essenziale, vuoto ma pieno, che mette distanza tra te e la gabbia. E in quella distanza si gioca tutto.

Chiamiamola presenza, chiamala coscienza, sveglia, miracolo. Chiamala come vuoi. Ma quando arriva, sai che non sei più solo. E soprattutto, sai che non sei più schiavo del meccanismo. Perché il primo passo per uscire dalla gabbia, è accorgersi che ci sei dentro. Il secondo, è ridere amaro, respirare forte… e aprire piano piano la porta.



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