C’era un bambino strano. No, non il tipo problematico, ma quello che all’oratorio, invece di unirsi al caos del calcetto, preferiva dondolarsi sull’altalena guardando le nuvole. Quello ero io. Cresciuto in un quartiere popolare dove l’amicizia si misurava a ceffoni e pacche sulle spalle – cemento armato di complicità – ho imparato presto l’arte del sopravvivere tra due fuochi: da un lato il branco (perché se no “ma chi ti credi di essere?”), dall’altro la mia voglia di scappare dal branco (perché, diciamocelo, a volte il branco è profondamente idiota).
Oggi i ragazzini hanno i nick name e gli avatar; noi avevamo i soprannomi e ci mettevamo la faccia. Loro comunicano con le emoji; noi ci bastava un’occhiata. Progresso? Mah.
Poi è arrivata l’adolescenza, e con lei la mia ribellione esistenziale: scrivevo canzoni brutte con testi profondi tipo “Tu non mi capisci, ma neanch’io”. La scuola? Finita più per far contenti i genitori che per reale interesse. L’università? Abbandonata dopo aver capito che “studia che ti serve!” non è un buon motivo per passare cinque anni a odiarsi. Le prime relazioni? Cercate disperatamente per “sentirmi normale”: non funziona. Morale della favola: se passi la vita a fingere di essere qualcun altro, prima o poi ti ritrovi trentenne, con due figli (meravigliosi), un mutuo e la stessa domanda che ti perseguitava a 15 anni: “Ma io chi cavolo sono?”.
Oggi sono un operaio. Lavoro dodici ore al giorno dietro a una macchina che sembra un aereo in decollo, con un conto in banca che oscilla tra “disastro greco” e “default argentino”. “Ma perché non cambi?” mi chiedono. Perché ho capito una cosa: il sistema vuole che tu corra. Più corri, più ti distrai. Più ti distrai, meno pensi. Io invece ho scelto di respirare. Anche se respirare, a volte, significa ritrovarsi a fine mese con la bolletta dell’acqua non pagata e un mese passato a dormire in macchina. Nota ironica: la Grecia è fallita, ma è ancora lì. Io pure.
L’altro giorno, al supermercato, ho assistito a una perfetta metafora della società moderna. Coda al banco salumi: io col mio numeretto (57), servivano il 54. Arriva lui, l’Uomo Modello: giacca fashion, sorriso da “ho diritto a tutto”, e soprattutto senza numero. “Sono il 55!” dice, sicuro. La commessa sospira, io trattengo l’istinto omicida, e un signore dietro di me lo smaschera: “Ma lei è un furbacchione!”.
Quell’uomo, senza saperlo, è stato il mio specchio e lo specchio quel giorno mi ha restituito due immagini.
La prima, immediata e spietata, è stata quella del mio pregiudizio: “Giacca fashion + sorriso da ‘ho diritto a tutto’ = furbacchione superficiale”. Un’equazione rapida, automatica, la stessa che il mondo mi ha insegnato a usare come difesa. È il riflesso della parte di me che ancora etichetta per sopravvivere, quella che trasforma le persone in caricature prima ancora di conoscerle. Magari quel tipo, nella vita, è un padre premuroso o un volontario in mensa. Ma in quel momento, per me era solo un #55, l’archetipo dello sbruffone modaiolo.
Poi è arrivata la seconda immagine, più sottile: quella che mi mostrava quanto, in fondo, non gli somiglio. Non nella furbizia (anche io ho i miei trucchi per arrangiarmi), ma in quella cecità sociale. Lui non si era accorto della tensione creata, della commessa a disagio, del cliente indignato. Io sì. E quel “vedere” – anche quando vorrei solo piantargli un pugno in faccia – è la distanza tra il pilota automatico del giudizio e la scelta di respirare invece di reagire.
Il paradosso è tutto qui: più etichetto gli altri, più mi imprigiono in un personaggio . Ma se smetto di farlo, scopro qualcosa di più interessante: che il vero 55 da evitare è la mia stessa tendenza a semplificare. Forse la consapevolezza non sta nel diventare santi, ma nel riconoscere i propri vizi mentre accadono. Tipo guardarsi le mani sporche di vernice dopo una giornata di lavoro e pensare: “Ecco, questo oggi l’ho toppato”. Senza drammi, senza bandiere.
Morale?
Il mondo è pieno di 55, sì. Ma a volte il più pericoloso è quello che porto dentro, pronto a bollare il prossimo per non guardare me stesso.
Respirare serve a questo: a far emergere non solo il “mio vero io” (che già mi sa di frase fatta), ma soprattutto le mie vere ipocrisie.
Ci raccontano che per “trovare la pace” servono chissà quali percorsi: meditare in Tibet, aprire un podcast, comprare l’ultimo corso su “Come diventare ricchi in tre giorni”. Io la pace l’ho trovata dietro a una macchina industriale, tra una pausa caffè e una bestemmia. Perché la consapevolezza è come il pane in gastronomia: se hai fretta, prendi quello già affettato (e non senti il sapore); se aspetti, ti tagliano la fetta giusta (e scopri che la vita, nonostante tutto, ha ancora un gusto che vale la pena assaporare).
Alla fine, la morale è semplice:
- Non serve essere illuminati. Basta smettere di mentire a sé stessi.
- Non serve un trauma. Basta guardarsi intorno (persino al supermercato).
- Non è che “tutto fa schifo”. È che a volte serve un po’ di letargo per capire cosa conta davvero.
Io ho scelto la mia strada: quella scomoda, quella che non ti fa arrivare a fine mese, quella che fa dire alla gente “poverino”. Ma almeno, quando mi sveglio la mattina, so chi sono.
(E se a qualcuno non piace, pazienza: tanto c’è sempre un numero 55 che gli passerà avanti).

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