“Scatta che ti passa”

Breve storia malinconica della fotografia e del nostro sguardo smarrito


C’era un tempo in cui fare una foto era un piccolo rito. Ti portavi dietro la tua macchina fotografica come un diario vuoto, pronto a raccogliere emozioni. Il rullino? Un tesoro fragile da 24 o 36 scatti, non uno di più. Ogni clic era una scelta. Aspettavi l’attimo giusto, evitavi che una mano, una gamba, un piccione disturbasse la scena. Cercavi la luce, l’angolazione, l’armonia. Fotografavi per ricordare, per conservare. Non c’eri tu, nella foto, ma c’era il tuo sguardo.

Poi arrivava lo sviluppo. Il momento del regalo. Quelle buste lucide con dentro pezzi di memoria: alcune foto mosse, altre sorprendenti. C’era magia perfino nell’errore. Nessun filtro, nessuna anteprima, solo il sapore dell’attesa.

Poi sono arrivate le digitali e qualcosa ha cominciato a cambiare. Niente più rullini, solo schede piene di gigabyte e libertà. Lo scatto compulsivo è diventato la norma: “tanto poi si cancella”. Ma ancora, il mondo là fuori era il protagonista. C’era spazio per la risata improvvisa dell’amico, per l’alba vista dal finestrino, per la pizza sbilenca in trattoria. C’erano ancora le cose da guardare.

E infine, arrivarono loro: gli smartphone. Piccoli mostri gentili, onnipotenti, onnipresenti. E con loro, il grande ribaltamento: il fotografo ha voltato l’obiettivo. Verso di sé. È nato il selfie. E da lì in poi siamo diventati tutti registi, protagonisti, truccatori, esperti di luci, di pose, di labbra a cuore e occhi languidi. Il mondo? Fa da sfondo. Il fiordo norvegese serve a dire: “io ci sono stato”, non “guarda che meraviglia”.

La fotografia si è trasformata: da finestra sul mondo a specchio. Da racconto, a proclamazione. Da poesia, a comunicato stampa dell’ego.

Eppure. Eppure.

C’è ancora chi fotografa un fiore e riesce a fartene sentire il profumo. C’è chi sa cogliere la malinconia di un tram, l’ironia di un gatto distratto, la poesia di una mano che si tende. Perché, in fondo, non è lo strumento, ma lo sguardo. Non il numero di pixel, ma l’anima che ci metti.

E allora va bene anche lo smartphone. Va bene anche il selfie, se è un abbraccio e non un’autocelebrazione. Se è memoria condivisa, e non trofeo personale.

Forse dovremmo solo ricordarci, ogni tanto, di tornare a guardare fuori. Ma non con lo sguardo distratto di chi passa, bensì con quello autentico di chi ha imparato anche a guardarsi dentro. Di cercare la luce ,fuori e dentro di noi. Di aspettare l’attimo. Di scattare meno, ma vedere di più.

E poi, magari, stampare una foto. Tenerla nel cassetto. O regalarla a chi c’era. Perché certe immagini sono come i profumi: restano addosso anche quando non le vedi più.


E mentre la fotografia cambiava, cambiavamo anche noi.

Un tempo si guardava con curiosità. Il mondo era una novità continua. Ci si fermava, si ascoltava, si annusava l’aria. Si viaggiava con lentezza, con fame di racconti e non di conferme. Il turista aspettava l’alba, il bambino rincorreva le onde, l’adulto stava nel momento. E si fotografava per dire: “guarda che ho visto”, non “guarda dove sono”.

Poi, come per le foto, anche la vita si è fatta digitale. Più istantanea, più esplosiva, più vorticosa. Ma anche più superficiale. Abbiamo iniziato a “scrollare” anche fuori dallo schermo: nei rapporti, nelle emozioni, nei pensieri. Il tempo dell’ascolto si è accorciato, la soglia dell’attenzione si è abbassata. Dove prima c’era l’attesa, oggi c’è il refresh.

Abbiamo iniziato a vivere per documentare, non per assaporare. A parlare per essere notati, non per essere capiti. A guardare per giudicare, non per scoprire.

E la fotografia, quella vera, quella che racconta, che accarezza, che respira — si è fatta rara. Ma non scomparsa.

Perché, come in mezzo a una galleria piena di specchi, c’è sempre una finestra. Basta trovarla. Basta ricordarsi che l’immagine non è solo ciò che appare, ma ciò che resta. Che vivere non è collezionare like, ma lasciare impronte. Che guardare il mondo, e non solo se stessi, è ancora possibile. Ed è bellissimo.


E allora forse il segreto sta tutto lì: nel rallentare.

Nel prendersi il tempo per respirare davvero, per sentire l’aria sulla pelle, per ascoltare cosa ci accade intorno — e dentro. Perché solo quando smettiamo di correre e iniziamo a vivere, possiamo davvero cogliere l’essenza delle cose. Solo allora le immagini non sono più solo pixel o pellicola, ma diventano specchi sinceri della nostra verità.

Come quando, arrivati all’ultimo scatto del rullino, ci si fermava un istante. Si guardava intorno, si cercava il momento perfetto, si faceva un respiro profondo. E poi ci si diceva:
“Questo deve essere lo scatto giusto. Quello che contiene e dà senso a tutti gli altri.”

Forse dovremmo vivere ogni giorno così. Con lo stesso rispetto. Con la stessa attenzione.
Come se fosse quello, l’ultimo scatto.


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