Ci sono gesti che, pur non avendo peso fisico, lasciano macerie. Tra questi, l’offesa verbale occupa un posto d’onore: un piccolo atto di violenza travestito da sfogo, un tentativo maldestro di colpire l’altro che in realtà smaschera chi lo pronuncia.
Eppure, è diventata quasi normale. Le persone si permettono di sparare sentenze, aggettivi velenosi, giudizi trancianti, come se fossero autorizzate a definire la vita altrui basandosi su qualche frammento superficiale. Ma davvero bastano due righe di messaggio per sapere chi è qualcuno? Davvero ci siamo ridotti a credere che l’altro sia solo ciò che mostra, dimenticando che ogni essere umano è un iceberg, con il grosso del suo mondo invisibile sotto la superficie?
Offendere è l’opposto del comprendere. È l’alibi emotivo di chi non ha la forza o la volontà di farsi domande. È più facile attaccare che mettersi in discussione. Più semplice puntare il dito che domandarsi perché qualcosa ci ha disturbato. E così, si reagisce di pancia, come bestie ferite che mordono, senza preoccuparsi del danno — non tanto all’altro, ma a se stessi.
Perché la verità è questa: ogni insulto svela più chi lo pronuncia che chi lo riceve. Le parole, quando escono con rabbia, portano il marchio di chi le ha generate. E anche se si crede di essere forti, determinati, risolutivi, in realtà si sta solo mostrando debolezza, fragilità, incapacità di stare nel confronto.
L’offesa non eleva. Non fa giustizia. Non ristabilisce equilibri. È solo un gesto sterile che imbratta. E il primo a sporcarsi è sempre chi lo compie.
Ci vuole coraggio a scegliere la strada dell’ascolto, della domanda, del tentativo di comprensione. Ma serve ancora più coraggio a guardarsi dentro prima di parlare. Perché forse, se ci fermassimo un attimo prima di offendere, ci accorgeremmo che l’altro non è il nemico. Che forse ci sta solo mostrando qualcosa che ci brucia dentro. Che forse non capiamo, e proprio per questo ci spaventa.
E allora, se proprio dobbiamo avere il coraggio di dire qualcosa, che sia qualcosa che non ci faccia vergognare, quando l’impeto sarà passato.
Il guerriero silenzioso non risponde all’offesa con l’offesa.
La guarda. La osserva. La lascia passare come vento tra gli alberi.
Sa che ogni parola carica di rabbia non è che un sasso lanciato nel buio, un’eco della guerra interiore di chi l’ha scagliata.
Il guerriero non si abbassa. Non si giustifica. Non si sporca.
Perché sa che la vera forza è restare centrati mentre il mondo urla.
E che l’unico vero dominio è quello su sé stessi.
Chi offende, si rivela.
Chi tace, custodisce.
Chi comprende, vince.

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