“Sì, lo so che ‘Meccanic’ non esiste in inglese. L’ho scritto così apposta. Perché questa non è la città dei meccanici. È la città della meccanicità dell’esistenza. Ed è tutta un’altra storia.”
I giorni sono davvero duri da affrontare.
Ti svegli nel cuore della notte, un caffè veloce, ti vesti alla rinfusa e vai a lavoro.
Lavoro.
È così che lo chiamano oggi quel posto in fabbrica dove sei incatenato a una macchina che non conosce pause, per 8, 9, 10, anche 12 ore al giorno.
Quando sei fortunato, passi il turno a schiacciare un bottone. Quando sei meno fortunato, sollevi pesi al limite della sopportazione umana. Continuamente. Senza tregua.
Tutte attività che rientrano — più o meno — nella normativa di legge.
Pausa ogni due ore, giusto il tempo di liberarti dei liquidi in eccesso. Se va bene, riesci anche a rimetterne di nuovi, più freschi.
Io, in tutto questo, ho imparato a respirare.
A fare silenzio.
Anche quando sono stretto tra la fatica, il rumore assordante delle macchine e quel senso di disintegrazione della dignità umana messa al servizio della meccanicità della produzione.
Sì, perché siamo al servizio delle macchine.
Ma non doveva essere il contrario?
La tecnologia, l’automazione, non dovevano alleggerirci la vita, liberare tempo, spazio, respiro?
E invece no.
La tecnologia è al servizio del padrone. Del profitto. Delle ville, degli yacht, del benessere di pochi.
A scapito, a prezzo, di vite umane.
E quando dico vite, intendo proprio persone.
Le vedo, le ho viste: vite spezzate prima ancora di arrivare alla pensione.
Corpi distrutti. Ma soprattutto anime devastate.
Anime che nemmeno si rendono più conto di essere uniche, irripetibili, meravigliose.
Anime scomparse, calpestate, incastrate così in profondità da non riconoscersi più. Da non esistere quasi.
E allora vedi la rassegnazione sui volti.
Vedi le lotte tra colleghi per avere un briciolo di fatica in meno.
Per essere visti dal “capo” come più efficienti, più produttivi, più meritevoli. Anche a scapito degli altri.
Eccolo il “divide et impera”, lo strumento perfetto per il controllo.
In mezzo a tutto questo io respiro.
E faccio silenzio.
Riesco a stare concentrato su quello che faccio, senza farmi risucchiare in quel buco nero.
A volte cado, ma riesco a rialzarmi.
E non finisce qui.
Perché finite le ore di schiavitù legalizzata, iniziano quelle della schiavitù moderna: la routine quotidiana degli impegni, del socialmente corretto, delle banche che ti chiamano perché devi rientrare, delle scadenze mensili, delle notizie sempre negative — che arrivano anche se spegni la TV.
Le vieni a sapere lo stesso. È incredibile.
Poi ci sono i social, diventati ormai un obbligo.
Devi dedicare tempo anche a quelli: mettere like a destra e a manca, così li ricevi anche tu.
Curiosare tra le cazzate che la gente pubblica:
“Il mio gattino ha fatto il primo ruttino!”
“Ohhh il mio bambino peloso!”
E giù cuoricini, like, commenti…
Ci sono cascato anch’io, lo ammetto.
Poi, per fortuna, a suon di respiri e silenzi, ho incontrato un amico:
il Guerriero Silenzioso.
E scrivo con lui, tramite lui, su di lui.
Nel mio blog.
Che è un controsocial a tutti gli effetti.
Un formidabile silenziatore.
E lì, tutto si ferma.
Lì posso urlare senza fare rumore,
incazzarmi nella più totale tranquillità,
esprimere ciò che nasce dal profondo dell’anima.
Lì non scrivo per ricevere un like.
Scrivo per lasciare ogni volta un piccolo sanpietrino sul cammino della consapevolezza.
Questo è il mio Guerriero Silenzioso.
Mi sta salvando.
Mi sta facendo vedere panorami che non credevo possibili.
Mi sta facendo sentire cose che pensavo non esistessero.
Mi sta insegnando ad apprezzare aspetti della vita che prima non consideravo.
È come se avessi un senso in più.
Con lui,
tutto sembra più semplice.

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