Ogni anno, puntuali come un orologio svizzero, arrivano i primi weekend di sole. Le giornate si allungano, le temperature salgono, e succede qualcosa che ha del misterioso: la gente impazzisce.
In massa, come spinta da una forza invisibile, si riversa sulle autostrade.
Si affrontano code chilometriche per raggiungere le spiagge, code per parcheggiare, code per guadagnarsi un ombrellone, spesso pagato più di un pasto caldo in un ristorante 5 stelle.
E parliamo di famiglie intere, che per un solo giorno di “mare” finiscono per spendere più di quello che hanno guadagnato, col sudore vero, in una settimana di lavoro.
A me, tutto questo, non solo non dice niente. Mi soffoca. Mi ripugna.
E non è snobismo. Non è misantropia. È una reazione viscerale.
Perché non stiamo parlando di “andare al mare”.
Questa è una processione, un pellegrinaggio di massa verso un’idea finta di libertà e relax.
Una messinscena collettiva che serve solo a confermare, ancora una volta, che chi comanda, l’industria del tempo libero, della moda, dei consumi, ha vinto anche questa partita.
Sì, perché quello che trovi in spiaggia in quei giorni non è pace, ma rumore.
Sfilate di corpi scolpiti, tatuaggi ostentati come medaglie, bikini ridotti al minimo sindacale.
Gente sdraiata come lucertole, immobili, a bruciarsi volontariamente sotto un sole che ti spacca la testa.
Bambini urlanti, palline vaganti dei racchettoni, urla, telefonini che squillano, altoparlanti che vomitano musica a tutto volume, piedi sconosciuti che si piazzano a due centimetri dalla tua faccia.
E tu, che magari volevi solo leggere un libro o chiudere gli occhi un attimo, ti ritrovi in mezzo a una fiera.
E tutto questo… per cosa? Perché “si fa”. Perché “è estate”. Perché “dobbiamo andare al mare”.
Ma andare dove? A fare cosa?
Non è questo il mare.
Questa è una fotocopia sbiadita. Un’illusione venduta bene. Una giornata di libertà che in realtà è solo un’altra forma di schiavitù.
Perché ti illude di staccare, mentre ti stai solo spostando , con le stesse abitudini, lo stesso rumore, lo stesso bisogno di apparire, da un ambiente chiuso a uno (apparentemente) aperto.
Il vero mare non è questo.
Il vero mare è quello che trovi quando non c’è più nessuno.
Quando arrivi che gli altri stanno andando via.
Quando i rumori si spengono e inizia il silenzio.
Quando il sole si abbassa e finalmente si riesce a respirare.
È lì che il mare si rivela.
Nei passi nudi sulla battigia ancora calda, nell’odore salmastro che si mescola con quello della sera.
Nel suono ritmico dell’acqua che si espande e si ritira, come un respiro.
Nel modo in cui ti sfiora la pelle, come una carezza, senza pretendere nulla in cambio.
Il mare è un momento.
Non una meta.
È ascolto, non rumore.
È presenza, non ostentazione.
È un incontro intimo, privato, sacro.
Il resto… è turismo da discount con i prezzi da boutique.
Io il mare lo amo. Ma lo amo quando è vero.
Lo amo d’inverno, come diceva Ruggeri e cantava la Mannoia.
Lo amo all’alba, quando il mondo ancora dorme.
O al tramonto, quando i “belli tirati” se ne vanno via sudati, abbronzati a metà, già un po’ ustionati, e tu arrivi, semplice, con il tuo asciugamano e il tuo librino.
E ti siedi lì.
Senza parlare.
Senza postare.
Senza comprare niente.
E il mare ti guarda. E ti accoglie. E ti parla.
Senza chiederti nemmeno un euro.

Lascia un commento