Separati, sì. Ma genitori o ultras? Il DDL 832 e la partita infinita dei figli contesi

Nel grande campionato della separazione genitoriale, siamo ormai al derby permanente: Madri vs. Padri. Curva Nord e Curva Sud, a colpi di lettere aperte, proposte di legge, comitati, hashtag, pianti televisivi e guerre legali. L’ultima occasione per scontrarsi? Il DDL 832, una riforma dell’affido condiviso che promette giustizia, parità, equità. E che — come ogni promessa elettorale o spot di dentifricio — alla prova dei fatti rischia di lasciare l’amaro in bocca a tutti.

Il sogno: la parità.

Il risultato: due trolley, due case, zero pace.

Il DDL 832 parte con intenzioni nobili: riportare l’affido condiviso dalla carta alla realtà, garantire la bigenitorialità effettiva, non solo dichiarata a voce tremante in aula. Vuole addirittura introdurre il principio della “casa-nido”: i figli restano fermi e i genitori fanno i pendolari. Peccato che tutto questo sembri scritto in un universo parallelo, dove i genitori separati sono tutti benestanti, disponibili, maturi e dotati di due residenze, tre psicologi e quattro auto. Ma nel mondo reale, dove la mamma vive a 30 km dal papà, e lui affitta una stanza sopra una rosticceria, questa parità diventa una farsa logistica.

La casa-nido, nel modo in cui viene proposta, è un’idea che suona bene in un convegno, ma è disumana nella realtà. È una visione adultocentrica, pensata da adulti per risolvere i disagi degli adulti, non per i bisogni emotivi dei bambini. Il concetto che i figli restino fermi e siano i genitori a spostarsi sembra equo… finché non lo applichi nella vita vera. E allora diventa una messa in scena grottesca: un teatrino di madri e padri a rotazione, con trolley, fidanzati nuovi e fratellastri a carico, che invadono per turni prestabiliti “la casa del bambino”. Ma che infanzia è?

Che sicurezza emotiva può avere un figlio in un posto dove la sua “base” cambia in continuazione volto, odore, dinamiche?
Non è la casa che fa la famiglia, è la relazione, è il calore, è la coerenza emotiva. Se al bambino togli quello, gli puoi lasciare pure la cameretta e l’armadio con i suoi vestiti, ma hai solo salvato il contenitore, non il contenuto.

Poi c’è l’assurdità logistica accennata prima: la casa-nido presuppone che entrambi i genitori siano in grado di spostarsi continuamente, abbiano case vicine, un lavoro flessibile, una vita ordinata. Cioè: è una formula per pochi, scritta da chi non sa cosa significhi vivere con lo stipendio contato, con turni di lavoro assurdi, con affitti che ti sfiancano. È roba da élite psicologicamente e finanziariamente stabile. Peccato che la maggior parte delle separazioni non avvengano a Beverly Hills.

La madre nei primi anni di vita è una figura essenziale.
Non è ideologia. È biologia, è storia, è esperienza, e chi lo nega per motivi di parità “simmetrica” sta violentando la realtà. Non sto dicendo che i padri valgano meno — e neanche lo penso — ma che c’è un momento della vita del bambino in cui la madre ha un ruolo più fisico, più viscerale, più continuo.
La verità è che i bambini piccoli non hanno bisogno di “tempo paritario” al 50%, ma di stabilità emotiva. Poi si cresce, si bilancia, si costruisce. Ma non puoi imporre un’equazione a un cuore che batte e cresce.

Le tifoserie

“Io sono la mamma!”

“E io non sono un bancomat!”

Mentre il ddl sventola il vessillo della giustizia genitoriale, le curve riprendono a tifare. Le madri, forti della storia, della pratica e — diciamolo — delle sentenze, si oppongono a ciò che vivono come una scalata al trono della maternità. I padri, stufi di essere il “genitore della domenica”, chiedono più tempo con i figli e meno assegni da firmare.

Nel mezzo, i figli, trasformati in pacchi postali con lo zaino sulle spalle e gli incubi in tasca…. a no scusate..i figli in casa nido e i genitori amazon! ma daii.

Il giudice? Spesso ignora perfino il nome del bambino

Cosa manca? Una cosa semplice: il buonsenso.
Perché una buona riforma non dovrebbe trasformare un giudice in un dio minore che assegna giorni, case e cucchiaini. Dovrebbe dare strumenti ai genitori, non punizioni. Educare, non punire. Aiutare, non giudicare.

Non esistono figli standard, quindi perché imporre soluzioni standardizzate? Una riforma sensata dovrebbe partire dai genitori, non imporgli giorni, assegni, doveri e diritti decisi da qualcun altro. Chi è lo Stato per sostituirsi al ruolo genitoriale?
Una legge utile dovrebbe offrire strumenti, non diktat. Servono percorsi, mediazioni, figure di supporto che aiutino i genitori a parlarsi, anche quando non si sopportano più. Perché un figlio non è un trofeo da spartire né un ostaggio emotivo da sventolare.
Ma poi devono essere madre e padre, insieme, a decidere che cosa è meglio per il figlio, momento per momento, lungo il cammino della crescita. Sono loro che lo conoscono, che lo vivono, che lo amano. Non il giudice. Non il legislatore.

Ma lo Stato, come sempre, fa da arbitro… e segna pure

In tutto questo, lo Stato si comporta come quel professore delle medie che punisce tutta la classe per colpa di due idioti. Perché invece di aiutare le famiglie a trovare soluzioni adatte a loro, entra a gamba tesa: “fate come dico io”. Come? Con affido paritetico per legge, penalità se uno “ostacola” l’altro, comunità educative come minaccia di backup. Una pedagogia da tribunale che risolve poco e complica tanto.

E poi: perché questo livello di controllo vale solo per i genitori separati ? Le coppie sposate con figli possono invece litigare e fare casini senza che il giudice batta ciglio. Due pesi, due misure, un bel pasticcio.

A perdere sono sempre i bambini

Alla fine, mentre mamme e papà fanno la guerra (più o meno legittima), a pagare sono sempre loro: i bambini, i ragazzi, i figli.
Che non vogliono un genitore vincente e uno perdente. Vogliono due adulti presenti, sereni, cooperativi, anche separati.

Serve una legge che smetta di trattare i figli come oggetti da spartire e li consideri finalmente per quello che sono: persone da proteggere e ascoltare.

Possiamo fare meglio?

Certo che sì. Ma serve smettere di tifare per la “categoria” e cominciare a pensare da genitori, non da ex.
Serve smettere con la nostalgia (“una volta era meglio”… si come no), e iniziare a immaginare una nuova cultura della genitorialità , dove la legge accompagna, ma non impone modelli irrealistici.

Perché i figli non hanno bisogno di un calendario legale delle visite, ma di un padre e una madre che abbiano fatto pace, almeno con se stessi.



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