Il lavoro (non) nobilita l’uomo

Fonte: Associated medias


Eurostat lancia il sasso e l’Italia, come al solito, nasconde la mano. Il 9% degli italiani che lavorano a tempo pieno vive sotto la soglia di povertà. In Germania è il 3,7%. Ma noi siamo “un grande Paese”. Di certo grande nel girare la testa dall’altra parte.

E allora domandiamoci:

A cosa serve il lavoro se non garantisce nemmeno la dignità?

Non parliamo di fannulloni o furbetti del reddito, ma di gente che si alza ogni mattina, lavora, obbedisce. Eppure non riesce a scaldarsi casa. Devono scusarsi di non essere nati in un paese dove il lavoro conta ancora qualcosa?

Intanto i giovani raccolgono le briciole di un mercato avvelenato: contratti usa e getta, paghe da fame, flessibilità che in realtà è precarietà mascherata. L’11,8% degli under 30 lavora e resta povero.

Ma non erano loro il “capitale umano”? O forse erano solo un hashtag da campagna elettorale?

E gli autonomi? Quegli eroi che “si reinventano”, che “non chiedono nulla allo Stato”? Il 17,2% è povero. Ma povero davvero, non nei reel motivazionali.

Quanti di loro si sentono dire “hai voluto la partita IVA? Adesso pedala”? Ma pedalano dove, se la strada è piena di buche?

Anche i laureati iniziano a vedere il proprio titolo di studio come un costoso souvenir. Il rischio povertà cresce anche per loro. Un tempo la cultura era salvezza. Oggi è solo un bel paradosso.

La forbice sociale si apre: il 10% più povero ha in mano il 2,5% della ricchezza. Il 10% più ricco se ne gode il 25%. Ma tanto ogni sera c’è il TG che ci dice che “l’economia è in ripresa”.

Ripresa per chi? Dove? In quale universo parallelo?

Nel frattempo, qualche dato “positivo”: cala la deprivazione materiale (quella roba che ti fa scegliere tra riscaldarti o mangiare). Ma resta: milioni di persone che non riescono a permettersi l’essenziale. Tradotto: si può sopravvivere, non vivere. Forse nel 2025 è già una vittoria?

E la politica? Silenziosa o complice. E quando parla, sputa parole come “merito”, “resilienza”, “ripartenza”. Ma qui non si riparte niente. Si resta fermi. O si scende ancora.

A chi giova tutto questo immobilismo? Chi ci guadagna davvero da una massa di lavoratori poveri, isolati, stanchi e divisi?

In fondo, questo è il grande sogno italiano 2.0: lavorare tanto, guadagnare poco, non protestare mai. E se proprio non ce la fai, c’è sempre un bel corso su LinkedIn che ti insegna a sorridere mentre affondi.

Siamo ufficialmente passati dal “ci sono famiglie povere perché non hanno lavoro” al “ci sono famiglie povere nonostante lavorino”. È il nuovo standard. È la normalizzazione del salario da fame, la retorica del “eh ma almeno un lavoro ce l’hai”. No, non basta più lavorare per vivere. Devi ringraziare anche se a fine mese non ci arrivi. Devi sorridere mentre affoghi.

Gli autonomi? Macellati da una burocrazia che pare scritta da Kafka sotto acidi e da un sistema fiscale che tratta chi prova a stare in piedi da solo come un nemico pubblico. E intanto sindacati in sonno profondo, pronti a svegliarsi solo quando si può firmare un bel comunicato da far girare nei talk show amici, o accendersi a comando di partito. Parlano di dignità del lavoro, ma poi cosa fanno? Il massimo dell’azione politica è un referendum a giugno per abolire un tetto all’indennizzo per i lavoratori licenziati ingiustamente nelle piccole imprese. Cioè, davvero: ci state prendendo per il culo?

Qui si gioca con la pelle della gente. Non è solo una questione economica. È una questione etica. È il segnale che il patto sociale è stato rotto. Chi lavora dovrebbe stare meglio di chi non lavora (che dovrebbe comunque avere a disposizione strumenti seri per trovarselo un lavoro), chi rischia in proprio non dovrebbe finire stritolato, chi difende i diritti non dovrebbe apparire solo quando conviene alla narrazione.



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