Titolo originale: Il tessile made in Italy tra crisi e tentazione
Fonte: 9Colonne (clicca per leggere l’articolo)
Quello di 9colonne è sicuramente un articolo ben fatto (finalmente!!!), soprattutto per come affronta tematiche complesse legate alla sostenibilità, al consumo e al futuro del tessile. Le sue riflessioni sollevano punti validissimi che invitano a una presa di coscienza rispetto alle scelte che facciamo ogni giorno come consumatori e cittadini. Tuttavia, è importante avvicinarsi a questi temi con una chiara consapevolezza delle sfumature, poiché, come accade spesso in questo tipo di dibattiti, alcuni argomenti potrebbero essere letti in modo troppo schematico. Nel mio articolo, voglio semplicemente suggerire di considerare alcuni aspetti con una chiave di lettura più ampia e critica, per evitare che le buone intenzioni si trasformino in scelte forzate o in un altro tipo di imposizione che non consente la libertà di scelta consapevole.
Negli ultimi anni si parla molto di moda sostenibile. Articoli, campagne pubblicitarie, influencer e marchi “green” ci invitano a cambiare le nostre abitudini: comprare meno, scegliere capi naturali, evitare gli sprechi. In apparenza è un appello sensato. Ma dietro questa narrazione si cela un meccanismo ben noto: spostare la colpa sul consumatore, lasciando intatto un sistema profondamente ingiusto.
Ci dicono che siamo diventati ossessionati dalla moda a basso costo. Che compriamo troppo. Che non rispettiamo l’ambiente. Ma raramente ci chiediamo come e perché si sia creata questa domanda insaziabile. È davvero colpa nostra, o siamo stati educati a desiderare, bombardati da pubblicità, novità continue, e soprattutto dalla promessa (falsa) che tutto è accessibile e democratico?
In realtà, la moda veloce è un’invenzione industriale, non una libera scelta collettiva. È il risultato di decenni di delocalizzazione produttiva, sfruttamento del lavoro minorile, distruzione dei piccoli laboratori locali. Un tempo ci si vestiva con pochi capi, spesso cuciti o riparati in casa, o acquistati in negozi di quartiere che offrivano qualità, non tendenze effimere. Si produceva meno, ma meglio. E si conosceva chi cuciva.
Oggi, in nome della sostenibilità, ci viene chiesto di consumare meno, ma spendere di più, acquistando capi “etici” che solo una parte della popolazione può permettersi. Il rischio? Che la transizione ecologica diventi un nuovo privilegio. Un nuovo modo per vendere, ma con una coscienza pulita. Mentre chi ha meno possibilità viene spinto verso il mercato dell’usato, del riciclo — non come scelta libera, ma come necessità economica.
Eppure esistono soluzioni reali e già disponibili: fibre alternative come canapa e ortica, filiere corte, cooperative locali, leggi che penalizzino il greenwashing. Ma se ne parla poco. Perché non fanno profitto. Meglio coltivare l’idea che basti “comprare meglio” per cambiare il mondo, e intanto continuare a produrre in modo insostenibile — ma a prezzo maggiorato.
Non serve una nuova moda etica per pochi. Serve un nuovo rapporto con i vestiti, e più in generale con il consumo. Un rapporto che nasca da scelte personali autentiche, non imposte dall’alto né indotte da sensi di colpa. Scelte libere, informate, che non rispondano a mode travestite da etica, ma a una consapevolezza interiore, naturale, che cresce con il tempo e con l’esperienza. Solo così possiamo davvero riconoscere valore in ciò che è fatto bene, nel riparare, nel passare un capo, nel dire con serenità: “questo mi basta”.
Non serve un’imposizione dall’alto per cambiare il nostro rapporto con i vestiti.
A casa nostra, il cambiamento è sempre stato naturale. Mio figlio ha iniziato a usare i miei pantaloni, mia figlia le gonne della madre. La nonna si divertiva a trasformarli secondo i gusti dei ragazzi: jeans con crateri, tasche ribaltate, gonne accorciate come per magia. Ora è il contrario: io indosso i vestiti di mio figlio, che mi ha superato in altezza (le gonne di mia figlia, quelle no… ancora non ce la faccio!).
Zara o non Zara, cinese o non cinese: c’è chi lo fa da sempre, per gioco, per affetto, per buon senso.
Il vero punto è che si tratti di una scelta autentica, non spinta dal senso di colpa o dalla pressione di chi pretende di educarti dall’alto, magari mentre continua a fare affari come prima, se non peggio.
Che sia una LIBERA SCELTA.
Le domande del Guerriero
Siamo davvero liberi nelle nostre scelte di consumo, o stiamo solo seguendo una moda che ci viene venduta come “necessaria” per il bene del pianeta?
Non sarebbe interessante che, piuttosto che seguirlo come una moda, il cambiamento legato al consumo consapevole si facesse spazio lentamente, attraverso piccole ma solide scelte individuali?
È possibile tornare a un consumo più consapevole senza che ci venga imposto dalle politiche di mercato? E, soprattutto, siamo pronti a farlo in maniera spontanea, senza sentirci giudicati per ogni piccolo errore?
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