Prendiamo spunto dall’articolo de L’Avvenire che, giustamente, ha dato spazio alla pubblicazione del Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari 2025, curato dalla Rete Globale contro le Crisi Alimentari (GNAFC), un’alleanza di organismi internazionali fra cui ONU, UE e varie agenzie umanitarie. Già il fatto che una testata italiana riporti la notizia in modo visibile è quasi un evento.
Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, non ha usato mezzi termini: «La fame nel XXI secolo è indifendibile. È più di un fallimento dei sistemi: è un fallimento dell’umanità».
I numeri sono agghiaccianti: oltre 295 milioni di persone in 53 Paesi vivono in condizioni di fame acuta. Si tratta del sesto anno consecutivo in crescita, con un peggioramento netto rispetto al 2023. Quasi 38 milioni di bambini sotto i cinque anni sono gravemente malnutriti. Alcune aree – come la Striscia di Gaza, Sudan, Mali e Yemen – versano in condizioni drammatiche, sfiorando la carestia conclamata.
Le cause principali indicate? Secondo il rapporto: guerre e conflitti (che colpiscono 140 milioni di persone), shock economici (quasi 60 milioni), eventi climatici estremi legati a El Niño (96 milioni). Fin qui la narrazione dominante.
Tuttavia, c’è un piccolo dettaglio che nei grandi titoli dei media, Avvenire compreso, tende a perdersi (o viene discretamente taciuto): il rapporto include proposte molto concrete e scomode per il sistema.
Nel dettaglio, vengono indicati tre fronti d’azione strategici che avrebbero meritato altrettanto rilievo:
- Rafforzare i sistemi alimentari locali, investendo in agricoltura sostenibile e resiliente, meno dipendente da meccanismi globali e speculazioni.
- Migliorare gli scambi commerciali, abbattendo le barriere e i monopoli che impediscono una distribuzione equa del cibo.
- Rilanciare la solidarietà globale, come previsto dal Patto per il Futuro dell’ONU (settembre 2024), puntando su un’equa redistribuzione delle risorse e finanziamenti strutturali per la sicurezza alimentare.
In altre parole: la fame non è solo causata da “fatalità” (guerre, disastri naturali, migrazioni) ma anche e soprattutto da scelte politiche ed economiche precise, che concentrano risorse e potere in poche mani, impoverendo sistematicamente intere regioni del pianeta.
Stranamente però, questi spunti faticano ad arrivare nei titoli. Eppure sono centrali. Perché la verità, anche quella più nuda, è questa: la fame non è una disgrazia inevitabile. È un prodotto del sistema.
Quando la notizia diventa compitino… e il mondo resta in silenzio
Quello che ho appena scritto non è un semplice articolo, ma un esempio concreto di come le notizie più importanti – quelle che potrebbero smuovere coscienze, risvegliare spirito critico, generare indignazione sana – vengano trattate come un compitino scolastico: le mettiamo lì perché “ci tocca dirlo”, ma le svuotiamo di forza, contesto e soprattutto prospettiva.
Siamo immersi in un mondo dissonante, dove la verità è rumore bianco, i drammi umanitari sono sottofondo, e le cause profonde vengono sistematicamente depurate da tutto ciò che potrebbe disturbare l’ordine stabilito. Un mondo meccanico, finto, corrotto fino al midollo, dove chi ancora prova a sentire, a pensare, a guardare con occhi lucidi viene trattato come un ingenuo o un fastidio.
Ma la fame non è una malattia incurabile. È il sintomo di un’umanità che ha perso se stessa, travolta da interessi economici, da indifferenza istituzionale, da una logica che giustifica tutto in nome del “realismo”.
Ecco perché scelgo, ogni volta che posso, di riportare queste notizie in modo completo, anche a costo di sembrare scomodo. Non per fingerci eroi o salvatori – non lo siamo – ma per tenere accesa una fiammella di coscienza, per provare a guardare le cose con la nostra luce, e non con quella riflessa dei riflettori altrui.
La vera rivoluzione, oggi, non è andare “contro”, ma guardare dentro. Ascoltare quella voce interiore che ci spinge verso la verità, verso la compassione, verso l’azione.
In mezzo alle macerie morali di questo pianeta, questa è l’unica bussola che può ancora orientarci: la luce della coscienza, che ci porta alla consapevolezza. Quella vera.
Lo ripeto: 300 milioni di affamati, una cifra mostruosa destinta a salire.
Cioè, l’equivalente della popolazione degli Stati Uniti sta morendo di fame. Piano piano. In silenzio. Fuori copertura mediatica.
E se stessero morendo di fame davvero negli USA?
Apriti cielo: dirette fiume, edizioni straordinarie, appelli, piani Marshall, crociate umanitarie a base di hamburger e bibbie.
Ma siccome accade in Sudan, in Mali, a Gaza, nello Yemen, tra sfollati invisibili e bambini secchi come stecchini, allora via, una colonna a fondo pagina e amici come prima.
Le agenzie di stampa? Nulla. L’Agenzia Nova è l’unica che ne ha parlato (però negli approfondimenti, mica in prima) e l’ Avvenire ha copiaincollato pari pari l, senza nemmeno fare finta di dargli un senso.
Poi ci lamentiamo che la gente legge solo i titoli: ma se i contenuti sono vuoti, cosa dovrebbe leggere, l’aria tra le righe?
Intanto però, troviamo spazio per tutto:
– il cancelliere tedesco con la gobba per stringere la mano alla Meloni;
– il business funerario vaticano da 600 milioni (sì, il paradiso oggi costa caro);
– Jasmine Paolini che vince davanti a Mattarella;
– i sindacati che propongono referendum su robe che lasciano il tempo che trovano (tipo: ma un referendum su “ci adeguate i contratti al 2025 o no?” no, eh?).
Ma la fame, quella vera, niente. Manca di appeal, pare.
E poi ci si chiede: “Ma che dobbiamo fare per svegliarci?”
Bella domanda. Il problema non è sapere, ormai sappiamo tutto. Il punto è che non sentiamo niente.
Finché si vive su un SUV a leasing, in una casa della banca, facendo vacanze a rate e like su Facebook, la fame è un concetto astratto.
Bisogna sentirla, non leggerla.
Solo sentendo, davvero, qualcosa cambia.
Anzi no: cambia tutto.
Non servono grandi analisi per capire cosa sta succedendo. I numeri sono chiari, le responsabilità anche. Quello che manca è la volontà di guardare in faccia la realtà, e soprattutto di sentirla. E allora, forse, vale la pena fermarsi un attimo e porsi alcune domande semplici. Domande che non chiedono competenze, ma coscienza:
Perché accettiamo come “normale” che milioni di persone muoiano di fame ogni anno, mentre altrove il problema è l’eccesso di cibo?
Se la fame fosse sotto casa nostra, tra i nostri figli o amici, reagiremmo allo stesso modo?
Cosa potremmo cambiare – nel nostro stile di vita, nei consumi, nelle scelte politiche, se iniziassimo davvero a sentire questa tragedia come nostra?
Chi decide quali tragedie meritano attenzione e quali no? E perché continuiamo ad accettarlo in silenzio?
Quante vite potrebbero essere salvate se smettessimo di considerare il cibo una merce come le altre?
Possiamo davvero dirci civili, se tolleriamo che un terzo dell’umanità non abbia accesso al minimo per vivere?
Perché parliamo di “crisi alimentare” come se fosse una catastrofe naturale e non una conseguenza di scelte umane?
Che ruolo abbiamo, anche solo con la nostra indifferenza, nel mantenere in piedi un sistema che crea disuguaglianza e fame?
Cosa succederebbe se la fame diventasse finalmente una priorità politica, economica e mediatica globale?
Se questo articolo ti risuona rispondi alle domande, ponine di nuove o semplicemente respiraci su…
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