Mi guardi e non mi vedi


Titolo originale: To the Ones Who Look But Never See
Autrice: Kristina Warlen
Fonte: TWLOHA (April 21, 2025) – clicca sul link per l’articolo originale in inglese

Nel suo scritto intimo e profondo, Kristina Warlen racconta la storia di una donna che ha trasformato il proprio corpo in una tela, ricoprendolo di tatuaggi non come gesto di vanità, ma come forma di sopravvivenza. Questi segni sulla pelle, che agli occhi esterni possono apparire come simboli di forza o sicurezza, sono in realtà, dice lei, «armatura»: un modo per proteggersi dagli sguardi indiscreti e per distrarre l’attenzione da un corpo con cui ha sempre fatto fatica a convivere.

«Ho passato anni a coprirmi d’inchiostro per creare qualcosa che potessi sopportare di guardare», scrive. La narrazione si sviluppa come un dialogo silenzioso con chi guarda ma non vede, con chi interpreta l’apparenza senza comprenderne le radici. Warlen parla del disagio di specchiarsi, della paura di essere giudicata anche sotto strati di abiti, di un’identità vissuta più come qualcosa da nascondere che da esprimere.

Nella vita quotidiana si mostra forte, «loud, fearless, unstoppable», ma dentro, nel privato, si sente fragile, piccola, invisibile. La società le ha già detto come dovrebbe essere una donna come lei. E lei, invece, cerca ancora un modo per mostrarsi davvero, per esistere con autenticità.

Ma qualcosa cambia. In un momento di consapevolezza, guarda la sua immagine riflessa – quella stessa figura che per tanto tempo ha evitato – e si domanda: E se non fossero armature? E se fossero lettere d’amore? Forse quei tatuaggi non sono solo un modo per nascondersi, ma anche un modo per ricominciare ad amare il proprio corpo, la propria storia, le proprie cicatrici.

Il cuore del messaggio arriva nel finale, quando Kristina si rivolge direttamente a chi, come lei, si è mai sentito fuori posto, troppo o non abbastanza, nascosto e inascoltato. «Non ti sto chiedendo di aggiustarmi. Ti sto chiedendo di ascoltarmi». È una richiesta di empatia autentica, non pietà: il desiderio di essere vista senza filtri, nella vulnerabilità e nella verità del suo sentire.

Il messaggio è potente e universale: non bisogna diventare qualcun altro per meritare amore. Non bisogna cambiare per esistere. «Siamo qui. E questo basta». Siamo già abbastanza. Ogni cicatrice, ogni voce tremante, ogni storia nascosta è parte di un cammino che merita di essere vissuto. «Non siamo rotte. Stiamo diventando».


Riflessioni del Guerriero

Questa storia è molto più di un racconto personale. È lo specchio rovesciato di un tempo che ci vuole sempre visibili ma mai davvero visti. In un mondo dove l’apparenza ha sostituito la sostanza, dove l’identità viene spesso costruita a colpi di immagini, filtri e narrazioni prefabbricate, la voce di Kristina emerge come un sussurro che taglia il rumore.

I tatuaggi, che agli occhi degli altri sembrano un grido di sicurezza, sono in realtà un modo per proteggere il dolore — una corazza disegnata contro il giudizio, un modo per deviare lo sguardo lontano dal vero sé. È un paradosso che dice molto sul tempo in cui viviamo: mostriamo tutto eppure non riveliamo nulla. È la società liquida, come direbbe Bauman, dove le relazioni sono fugaci, le identità mutevoli, e l’impegno emotivo qualcosa da evitare più che da cercare.

Kristina non vuole diventare un’icona, non cerca di insegnarci qualcosa. Sta solo cercando di raccontarsi con sincerità. E proprio per questo la sua voce è potente. Perché parla una lingua che molti capiscono ma pochi hanno il coraggio di usare: quella della fragilità autentica. Non quella estetizzata nei post motivazionali, ma quella scomoda, che non sa dove andare, che si interroga senza darsi risposte facili.

Nel racconto c’è un punto di svolta sottile ma fortissimo: quando l’armatura smette di essere solo difesa e diventa anche un ponte. Un passaggio. I segni sulla pelle non sono più un muro ma una mappa. E forse è proprio questo il cuore del messaggio: che possiamo trasformare le nostre difese in strumenti di verità. Che non serve negare la paura o il disagio per trovare un senso, ma imparare a conviverci, a dar loro forma. A guardare negli occhi quella parte di noi che abbiamo sempre cercato di zittire.

E poi c’è quell’invocazione finale, rivolta a chi legge:

“se hai mai provato a sparire, se ti sei sentito troppo o troppo poco, resta con me.”

È un invito all’empatia radicale. A dire: non sei solo, non sei sbagliato. Ti vedo. E in un mondo che ci misura per quanto riusciamo a mostrarci vincenti, dove anche la sofferenza deve essere vendibile, questa è una ribellione. Silenziosa ma dirompente.

Alla fine, questo racconto ci dice che essere visti per davvero è un atto rivoluzionario. E che imparare a vederci — davvero — è forse l’unica strada per iniziare a guarire. Non solo individualmente. Ma come comunità. Come società. Come umanità che, sotto le armature, sotto i filtri, sta ancora cercando la propria voce.


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