Capitolo 1: La stazione

Dopo quella sera, in cui tutto era sembrato possibile, in quel raro incontro di anime affini che cantano all’unisono e, perfettamente immerse una nell’altra, lievitano in una sorta di quarta dimensione che solo certi incontri sanno scoprire, lui cercò invano nei suoi occhi traccia di quei momenti che in lei, istante dopo istante, stavano svanendo come un faro nella nebbia che diventa sempre più piccolo, fino a immergersi completamente nel grigiore circostante.

E più lo cercava, più aumentava la luce, alzava lo sguardo scrutando l’orizzonte alla ricerca di un barlume, e più quel muro inodore di fumo si faceva denso e imperscrutabile. Non era preparato a quella strana situazione, non aveva mezzi né forza per fronteggiarla. Non aveva ripari, e le ferite che si portava in dote, sensibili ai cambi repentini, si facevano sentire. Non che fosse sorpreso: lei lo aveva avvisato, il tempo poteva cambiare perché la vecchia stagione non era del tutto alle spalle. E se, pur sinceramente convinta di lasciar cadere le foglie per andare incontro a nuovi colori, queste non erano cadute, ma avevano inaspettatamente ripreso vigore.

Seguirono giorni di silenzio e di distanza, una distanza che nemmeno ricordi vividi, colmi di quelle sensazioni che non sanno mentire, riuscivano a colmare. Al contrario, la rendevano necessaria per evitare quell’abisso emotivo ed esistenziale che la paura sa scavare, servendosi beffarda delle tue mani.

In quei giorni lei si rifugiò tra braccia conosciute, di cui scorgeva forza e limiti, di cui sapeva tutto e da cui non si aspettava niente di più di quello che fino a lì erano riuscite a darle. Una dimora solida, perfettamente in armonia con il paesaggio circostante, che lei conosceva come le sue tasche e in cui sapeva muoversi sicura. Aveva sempre vissuto lì ed era decisa a restare. Un posto bellissimo, sì, ma di una bellezza statica, ormai fine a se stessa, che sapeva di passato e in cui amava adularsi senza troppa cura per il futuro.

Decise che a lei andava bene così, decise di rinunciare agli sconfinati orizzonti dell’ignoto e a tutte le emozioni, esperienze, sensazioni che sa portare. Era consapevole di voltare le spalle alla pienezza di una vita fatta di gioie e dolori, di guerra e pace, di vittorie e sconfitte. Si era decisa a viaggiare comoda in carrozza, al prezzo di qualche compromesso. Il suo era un vagone pieno di tutte le cose necessarie a vivere nell’unico modo che lei aveva conosciuto e che finalmente si era convinta, con qualche aggiustamento, a condividere con la persona più adatta al ruolo.

Fino a quella sera, (…) poco tempo dopo, in cui lei, sempre cosciente della sua decisione, ebbe un attimo di debolezza o di illuminazione — dipende dal punto da cui guardiamo la vicenda. Venne a sapere, in modo apparentemente casuale, che lui stava partendo e si precipitò con ansia crescente alla stazione, con quel timore in gola e l’affanno in cuore, figli della paura di non arrivare in tempo.

“Per cosa?” pensò. “Per un ultimo saluto, per un ultimo sguardo verso quell’orizzonte che le sarebbe stato per sempre negato? O forse perché poi, alla fine, nel profondo, dove la logica non è più tale e dove prende voce il passeggero silente… forse…”

Lo scorse, per fato o per semplice fortuna, solo, tra mille anime in partenza e in arrivo, seduto sull’ultima poltrona dell’ultimo vagone di quel treno che l’avrebbe portato distante da lei. Riuscì a salire appena un attimo prima del fischio del capotreno, che, freddo e irreversibile, dava inconsapevolmente il via a un fato che avrebbe segnato per sempre il loro destino. Chissà quante volte gli era già capitato, quanti destini aveva deciso nella più totale ignoranza. Addii e riconciliazioni, perdersi e trovarsi, incontrarsi per caso, mancarsi per un attimo. Alla fine, la vita sta tutta qui: in quel continuo via vai di treni carichi di persone più o meno consapevoli del loro destino.

Notò che lui non aveva bagagli, non ne aveva bisogno: riusciva perfettamente a portare sulle spalle i pochi ricordi di una storia mai nata e, poi, non doveva andare lontano, ma solo distante. Si può essere distanti anche se vicini, fa più male, ma si può. Quello, insieme a lui, era un orizzonte intenso, fisico e vero, a tal punto che la sera potevi percepire l’acqua evaporare dal mare al tramonto.

I loro corpi si univano con una tale forza che sentivi di non esserti mai amato così intensamente, e amare se stessi è sentimento raro e ben diverso dall’essere egoista.

La verità è che lui era nel suo mondo, nella sua dimora abituale. Non soffriva, perché in quella dimora era il re incontrastato, libero di pensare, di non pensare, di parlare e di tacere. Era sempre stato “quello strano”, seduto sempre un metro più in là degli altri, vicino ma fuori dalla folla, dallo schema, dalla moda, dal comune intendere le cose. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, e fin da bambino aveva eletto se stesso a compagno fidato. Era il suo modo di tener lontano ciò che non riusciva a comprendere, di tenerlo a distanza di sicurezza ma a portata di sguardo. Osservare, rispettare e tacere si ripeteva sempre. In seguito, crescendo, aggiunse un’altra regola: ricordare.



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