Capitolo I – Il Regno che funzionava
C’era una volta un regno non grande, ma ordinato. Si chiamava Soldonia e si stendeva tra colline di grano, fiumi generosi e piazze piene di voci.

Le strade erano fatte di pietre vive e passavano tra botteghe di falegnami, panettieri, fabbri e ceramisti.
Ogni mattina, appena il sole sbucava dal campanile di Rendimento, le campane suonavano e i paesani iniziavano a lavorare
La gente usciva di casa con il grembiule, la cesta sotto braccio e un’idea in testa.
Tutti avevano qualcosa da fare. E un motivo per farlo.
Nella piazza del borgo, il vecchio mastro Panfi levava il coperchio al forno e faceva uscire un profumo di crosta che ti accompagnava fino a sera.
Vicino alla fontana, le tessitrici stendevano le stoffe al sole che sembravano ali.
I bambini rincorrevano le galline, i venditori urlavano i prezzi e ogni tanto si sentiva anche una risata.
Era un regno dove non si sprecava nulla: né il tempo, né il lavoro, né i sogni.
E questo equilibrio prezioso aveva un nome: si chiamava Economia.
Ma tutti, a Soldonia, la chiamavano Regina Economilda.
Economilda viveva nel Palazzo Bilancio, una grande casa di pietra chiara, né troppo lussuosa né troppo povera.
Indossava vestiti di lino grezzo e portava occhiali tondi che le cadevano sempre sul naso.
Era pratica, concreta, regnava con l’abaco in una mano e la lista della spesa nell’altra.
Ogni mattina usciva sul balcone e osservava il fumo dei comignoli.
Se il fumo saliva dritto, la gente stava bene.
Se il fumo si faceva incerto… toccava intervenire.
Era lei a decidere quanti mattoni servivano per costruire una scuola, o quante capre poteva prendere un pastore senza mandare in tilt i conti.
Nessuno l’amava alla follia, ma tutti si fidavano.
Perché con Economilda al timone, il regno non affondava mai.
Ma la regina non era sola.
Accanto a lei, giorno e notte, lavorava Ser Finanzo, il Gran Custode dei Soldi.
All’inizio non lo notava quasi nessuno.
Camminava veloce, con un registro sotto il braccio e lo sguardo sempre puntato sui numeri.
Aveva una bottega sotto il Palazzo, con una porta stretta e una targhetta che diceva:
“Qui si aiutano i sogni… se sono ben calcolati.”
Ser Finanzo non dava soldi per capriccio.
Se un contadino voleva un aratro nuovo, lo faceva sedere, gli offriva una mela, tirava fuori due sassolini e diceva:
“Vediamo se ci stai dentro.”
E se il contadino dimostrava che sì, c’era un raccolto buono all’orizzonte… Finanzo gli dava i soldi.
Con l’accordo che li avrebbe restituiti a tempo debito, con un piccolo “grazie” in monete.
Lo stesso faceva con gli artigiani, con i pescatori, con chi voleva costruire, comprare, piantare.
Era un ponte tra chi aveva denaro fermo e chi aveva idee in movimento.
Alla fine di ogni giornata, dopo che il sole si era tuffato dietro le Colline dei Bilanci , Ser Finanzio lasciava la sua bottega e saliva al Palazzo Bilancio, dove la Regina Economilda lo attendeva per il consueto resoconto serale.
Era un momento semplice e puntuale, come il tintinnio delle monete nei sacchetti dei mercanti.
Un vassoio di fichi secchi, due coppe di latte d’orzo, e le grandi pergamene dove erano annotati i movimenti di giornata.
“Allora, Ser Finanzio?” chiedeva lei, con un tono che era più da sorella maggiore che da sovrana. “Com’è andata oggi?”
“Molto bene, Maestà. Il fabbro Corviglio ha ricevuto ventitré monete per allargare la sua officina. Dice che riuscirà a fornire più ferri ai carrettieri. Questo farà girare più grano, e domani il mugnaio Grom sarà pronto a rafforzare il suo mulino.”
Economilda ascoltava con un sorriso che sapeva di forno acceso.
“E la tessitrice Lila?”
“Ha ricevuto sette monete per comprare nuovi telai. In cambio, ha promesso di intrecciare una stoffa speciale per il mercato d’autunno.
“Bene,” annuiva Economilda. “E i ritorni?”
“Ogni moneta prestata torna col suo solito granellino in più… e con il sorriso di chi l’ha ricevuta. Il paese gira, Maestà. Senza fretta e senza paura.”
“E i fornai? I bottegai? I pastori?”
“Felici. E riconoscenti. Finché il lavoro gira, i cuori battono.”
Economilda sospirava soddisfatta.
“Bravo, Finanzio. Ma ricordati sempre: i numeri sono solo la musica. A noi importa che il villaggio danzi.”
“E danza, Maestà. Con gioia.”
E così, in mezzo al pane che lievitava, alle stoffe che profumavano di sole, ai mattoni che salivano uno sopra l’altro, anche i soldi si muovevano bene. E la gente, senza capirlo fino in fondo, viveva serena.
Quel tempo a Soldonia non era perfetto. Ma era giusto.
Il lavoro aveva un senso.
Il denaro aveva una direzione.
E le persone avevano un posto.
Poi, un giorno, qualcosa cambiò.
E tutto quel calore… cominciò lentamente a svanire.
Capitolo II – Il dado del gioco

All’inizio fu solo un sussurro.
Arrivava da oltre il fiume Bilancetta, da terre che nessuno a Soldonia aveva mai visitato. Qualcuno diceva che laggiù i soldi crescevano da soli, come funghi nel bosco umido.
Che bastava scambiarli in fretta, prometterli senza darli, venderli prima ancora di possederli.
Ser Finanzo ascoltava in silenzio, ma dentro di sé qualcosa cominciava a scricchiolare.
Un pomeriggio, mentre stava sistemando dei libretti contabili in soffitta, trovò una vecchia scatola dimenticata. Sopra c’era scritto:
“Gioco del Valore, versione avanzata.”
Dentro c’erano carte colorate, dadi strani, pedine con nomi bizzarri:
Aziona, Bondone, Derivaldo, Specula...
E una regola scritta in piccolo:
“Qui non conta cosa costruisci, ma quanto ci credono.”
Finanzo rise. Una risata leggera, quasi colpevole.
Poi si sedette, prese il dado, lo lanciò. Solo per vedere che succedeva.
Quella sera, a Palazzo Bilancio, la regina Economilda notò che qualcosa era diverso.
“Finanzo, tutto bene?”
“Benissimo, maestà. Sto solo… valutando nuove strategie.”
“Nuove… cosa?”
“Niente, niente. Un’ottimizzazione. Una cosa moderna.”
E sorrise. Un sorriso nuovo. Troppo nuovo.
Da quel giorno, Finanzo cominciò a uscire meno dalla sua bottega.
Chi lo incontrava, lo trovava strano. Parlava da solo, faceva conti complicati sulla sabbia, disegnava frecce che salivano e scendevano.
Aveva smesso di parlare di “campi”, “reti da pesca” o “telai”.
Diceva cose come:
“Credibilità percepita.”
“Leveraggio strategico.”
“Azioni a medio rischio ma corto respiro.”
E nessuno, nemmeno il gatto della piazza, capiva più cosa volesse dire.
Col passare delle lune, Ser Finanzo si fece sempre più ingegnoso.
Non si accontentava più solo di prestare a chi doveva comprare martelli, gomitoli o ruote. Ora cominciava a ragionare più in grande.
Quella sera, mentre osservavano insieme il tramonto dai bastioni del Palazzo, disse alla regina:
“Maestà, ho capito una cosa.”
Economilda, che nel frattempo mangiava fichi e annotava sul suo quaderno, sollevò un sopracciglio curioso.
“E cioè?”
“Se uno fa un buon pane, e io gli presto tre monete per fare due pani in più, io guadagno una briciola… Ma se presto quelle stesse tre monete a uno che, con quei tre soldi, dice di poterne fare sei solo spostandoli bene, io posso guadagnarci due pani senza accendere il forno!”
“E questi sei soldi… dove sarebbero?”
Finanzo rise.
“È una metafora, Maestà! Il punto è che se sosteniamo chi sa muovere il denaro, possiamo far girare tutto più velocemente. Come se raddoppiassimo le ruote dei carri. Tutto più efficiente.”
Economilda lo fissò in silenzio.
“Ma la farina, la legna, la lana… quelle non si muovono da sole.”
“Maestà, con i rendimenti che questi nuovi progetti portano, potremo rifinanziare ogni cosa. Avremo pane e profitti. Basta solo credere nel sistema.”
“E tu… ci credi?”
Finanzo non rispose subito. Si tolse gli occhiali da calcolo, guardò il villaggio illuminato dai lumi della sera, e disse:
“Ci voglio credere.”
Economilda si alzò, fece due passi lenti e poi aggiunse:
“Finché il tuo ‘sistema’ serve a far vivere meglio i fornai, i sarti e i pescatori… ci crederò anch’io. Ma se un giorno inizierai a prestare monete a chi non impasta, non fila, non tira reti…
…allora non sarà più Soldonia a danzare. Ma solo le tue cifre su carta.”
Finanzo sorrise.
Ma dietro quel sorriso c’era qualcosa che neppure lui sapeva spiegare.
Una specie di luccichio negli occhi. O forse… un riflesso di specchio.
Capitolo III – I Nuovi Arrivati

Fu in un pomeriggio strano, né caldo né freddo, che dal sentiero polveroso giunsero tre sconosciuti.
Nessuno li aveva mai visti, ma sembravano sapere esattamente dove andare.
Erano vestiti bene. Troppo bene. Di quel bene che ti mette soggezione anche se non sai spiegarti perché.
Ser Finanzo li vide arrivare dalla finestra della sua bottega.
Chi erano? Da dove venivano?
Non lo sapeva. Ma dentro di sé… li stava aspettando da tempo.
Il primo, con mantello oro e piuma verde, si fece avanti con un sorriso largo.
“Mi chiamo Aziona. Vedo che qui si gioca ancora con monete e libretti… Ma lei, ser Finanzo, ha lo sguardo di chi sa che il vero gioco è altrove.”
Finanzo lo fissò. Il cuore gli batteva più forte.
Non era stupito. Era come se avesse riconosciuto una vecchia idea travestita da forestiero.
“Dividere un’impresa in piccoli pezzi…” mormorò. “Farla crescere grazie alla fiducia. Ci ho pensato. Spesso. Ma non ho mai osato.”
Aziona sorrise ancora di più.
“È ora di osare, mio caro. Basta un tratto di penna. E poi… il valore lo farà la voce del villaggio.”
Derivaldo lo seguì a ruota.
“Io invece non ho bisogno che qualcosa esista davvero,” disse, con tono sicuro.
“Scommetto su ciò che potrebbe accadere. Anticipo il futuro.”
Finanzo annuì, pensieroso. “Fare leva sulle probabilità, creare valore dai forse… È rischioso.”
“Sì. Ma eccitante, vero?” rispose Derivaldo, inclinando appena la testa.
Poi parlò Specula, in un sussurro.
“Il valore non sta in ciò che è, ma in ciò che potrebbe sembrare.”
Posò uno sguardo su una vecchia moneta sul banco.
La moneta sembrò brillare.
Finanzo la guardò come si guarda una fiamma che non si può spegnere.
“Non siete visionari,” disse. “Siete… quello che io non ho mai avuto il coraggio di essere.”
Fece una pausa. Poi si alzò, aprì le imposte, lasciando entrare la luce.
“Restate. Parliamone. Vediamo fin dove si può arrivare.”
Da quel giorno, Soldonia cominciò a cambiare.
Aziona andava di bottega in bottega e con un tratto di penna divideva ogni attività in piccoli pezzetti colorati.
“Così tutti potranno avere un pezzettino della tua impresa!” spiegava.
“Non importa cosa fai. Importa che piacciate.”
Il fornaio, che fino a quel giorno si era accontentato di sfornare pagnotte, annuì.
Non capì bene cosa fosse un “brand”, ma il modo in cui Aziona lo diceva… sembrava bello.
Derivaldo scommetteva su tutto: su raccolti non piantati, navi non partite, pecore mai tosate.
“Io anticipo il futuro,” diceva.
“E se sbagli il futuro?”
“Qualcuno pagherà,” sorrideva.
Specula, invece, non parlava quasi mai.
Le bastava uno sguardo. Una frase.
“Questa zuppa? Il prossimo trend globale.”
E tutti correvano a comprare cucchiai.
Nel giro di poche lune, la gente smise di parlare di reti, barche e telai.
Parlava di curve, indici, “mood di mercato”.
I giovani non volevano più imparare a fare.
Volevano imparare a moltiplicare.
E Finanzo?
Finanzo sembrava fiorire.
Scriveva formule, lanciava dadi, disegnava frecce sulla sabbia.
Ogni tanto, correva da Economilda con occhi accesi:
“Maestà, ho trovato un modo per moltiplicare i fondi del raccolto del prossimo anno… già da adesso!”
Economilda lo ascoltava, ma i suoi occhi erano pieni di dubbi.
“E se poi il raccolto non arriva?”
“Non importa. I conti girano comunque,” rispondeva lui.
La Regina, ormai sempre più sola, guardava il fumo dei comignoli e non vedeva più nulla.
Perché il fumo aveva smesso di salire.
Le cucine erano spente.
“Che stanno facendo ai miei conti?” sussurrò.
Ma nessuno la ascoltava più.
Perché ora, a Soldonia, contava solo giocare.
Capitolo IV – Il gioco prende piede

Il regno di Soldonia non era mai stato così vivo. O almeno così sembrava.
Ogni giorno, nella piazza principale, c’erano nuove bancarelle. Non più quelle dei formaggi, delle stoffe, delle zuppe di radice… ma stand luccicanti con nomi misteriosi: “Valorizzazioni Eteree”, “Miraggi e Rendite”, “Future & Fantasia”.
I cittadini, che un tempo si scambiavano ortaggi e utensili, ora barattavano titoli, scommesse e “quote di vento”.
I pochi artigiani rimasti cominciavano a dubitare di se stessi.
Un giorno mastro Panfi, con le mani infarinate, si fermò davanti a un chiosco.
“Un’azione del mio forno vale dieci zucche?” chiese.
“No,” rispose Aziona, “vale cento. Basta crederci.”
Panfi si tolse il grembiule. Forse era ora di smettere di impastare.
Intanto, nella sua bottega ormai traboccante di grafici e specchi, Ser Finanzo annotava febbrilmente.
Ogni giorno nuovi numeri, ogni giorno nuove crescite.
Ogni giorno qualcosa che prima serviva — e ora, chissà — non serviva più.
Entrava Aziona con le sue pergamene colorate.
Derivaldo portava notizie su scommesse in villaggi che nessuno conosceva.
Specula rideva e gli toccava la spalla: “Hai visto? Basta una voce ben lanciata, e anche il nulla diventa oro.”
Finanzo, incantato, annuiva. Quelle voci… erano l’eco delle sue intuizioni.
Non era solo un banchiere. Era un artista del possibile. Un poeta del denaro.
Ma quella sera, tornando da Palazzo Bilancio, incrociò il piccolo Marmello, il figlio del falegname, seduto sui gradini con un pezzo di legno e uno scalpello.
“Cosa fai, ragazzo?”
“Un cavallino. Ma il legno è duro. E il papà non lavora più, dice che adesso fa consulenze di brand positioning.”
Finanzo rimase un attimo zitto. Poi sorrise, ma fu un sorriso stiracchiato.
Quella notte, mentre tutti festeggiavano l’apertura del “Mercato dei Miracoli”, la regina Economilda rimase sola nella sala dei Conti.
Aprì un libro, poi un altro. Cercava i numeri reali. Ma non li trovava più.
Solo curve, frecce e parole che sembravano brillare… ma non riscaldavano.
“Allora è così che finisce?” sussurrò.
Ma non finiva. Non ancora.
Quello era solo l’inizio della danza dei riflessi. E nessuno — tranne forse lei — si chiedeva più: “Cosa vale davvero?”
Capitolo V – I primi scricchiolii

All’inizio fu solo un odore.
Non quello del pane caldo, né del sapone di lavanda che riempiva le case in primavera.
Era un odore strano, un misto tra polvere vecchia e pioggia che non arriva.
Qualcosa che non si vedeva, ma si sentiva — sotto la pelle, tra i pensieri.
Nel mercato, i sorrisi cominciavano a durare meno.
“L’azione del mulino ha perso tre punti!”
“Specula ha detto che le patate non vanno più di moda.”
“Derivaldo ha scommesso contro la vendemmia…”
Ma nessuno osava davvero preoccuparsi.
“È il Gioco,” dicevano. “Ha alti e bassi. Ma sale sempre alla lunga.”
I primi a perdere tutto furono i fabbri.
Non perché lavorassero male. Ma perché nessuno comprava più ferro: tutti volevano quote di una nuova invenzione chiamata “Ferro immaginario”, che pesava zero, ma prometteva cento.
Poi fu la volta dei pastori.
Le pecore non bastavano.
Ora contavano “le potenzialità ovine in territori ancora da esplorare”.
E Finanzo?
Finanzo cominciava a sentire un peso nel petto.
Guardava i grafici che salivano e salivano, ma il suo stomaco no. Lui scendeva.
Una sera, chiese a Derivaldo: “E se… qualcosa andasse storto?”
Derivaldo sorrise, lento.
“Storto rispetto a cosa? Il mercato ha sempre ragione. E se cambia direzione… basta seguirlo.”
Poi aggiunse, accarezzando i suoi foglietti:
“Il rischio è solo un’opinione. L’importante è che ci credano abbastanza a lungo.”
Specula gli sorrise. “Il segreto è crederci. Finché tutti ci credono, nessuno cade.”
Ma quella notte Finanzo non dormì.
Uscì in punta di piedi dalla sua bottega e camminò fino al confine del paese.
Lì, nel silenzio del campo lasciato a maggese, vide il contadino Filarco, l’unico rimasto.
Stava scavando con le mani nude.
“Cerco la terra buona,” disse.
“Ma sembra che se ne sia andata.”
Finanzo tornò a casa con il cuore pesante.
Fece per aprire il vecchio scatolone del “Gioco del Valore”, ma si accorse che era vuoto.
O forse… non c’era mai stato nulla dentro.
Capitolo VI – La grande crisi

All’inizio fu solo un piccolo ritardo.
Una tessitrice si presentò al mercato con due sciarpe da vendere. Ma la donna che le aveva promesse in cambio di “quote di lana futura” disse che, al momento, non poteva pagare. Doveva prima “liquidare un investimento sul cotone immaginario”.
Il fornaio, quella mattina, trovò la serratura della sua bottega forzata. Dentro, solo cartelli: “Attività acquisita da un Fondo d’Espansione Interdisciplinare”. Pane, farina, e lievito? Spariti.
Persino il fabbro, che di solito parlava solo col martello, un giorno si fermò, guardò il cielo e disse: “Non sento più il rumore del ferro. Solo il fruscio dei foglietti.”
Il popolo di Soldonia iniziava ad accorgersi che i soldi giravano, sì — ma sempre più in fretta e sempre più lontano dalle loro mani.
Nella bottega di Finanzo, ora trasformata in un luogo pieno di luci, campanelli e strani abachi che cambiavano numerioogni secondo, l’aria era tesa. Aziona correva avanti e indietro parlando di “flussi d’uscita” e “fiducia che vacilla”. Derivaldo aveva iniziato a sudare. E Specula… Specula non si vedeva da giorni.
Una mattina, la Regina Economilda si presentò senza annuncio.
Entrò, guardò Finanzo dritto negli occhi e disse:
“Non sento più il profumo del pane. Solo quello dell’ansia.”
Finanzo abbassò lo sguardo. Cercò un foglio. Un grafico. Una formula. Ma per la prima volta, nessun numero sembrava bastare.
“Non è colpa mia,” mormorò. “Tutti ci credevano.”
“Ma tu per primo,” rispose lei. “E il tuo era il peso più grande.”
Fu in quel momento che, fuori, si sentì un tonfo.
La piazza centrale. Il grande Orologio del Valore. Si era fermato.
La lancetta dei secondi, che da anni correva impazzita, si era spezzata.
“Cos’è successo?” gridò qualcuno.
“Nessuno compra più!” rispose una voce.
“La gente vuole grano vero! Legna vera! Cose che scaldano, cose che nutrono!”
Ma le botteghe erano vuote. I mestieri dimenticati. I contadini senza semi, i tessitori senza fili.
Il Gioco si era spento.
E Finanzo, dal centro della sua bottega ora troppo silenziosa, capì: forse, in quella scatola trovata in soffitta, mancava una regola fondamentale.
Quella che dice: “Se tutto è finto, prima o poi, niente vale più niente.”
Capitolo VII – La quiete

Il giorno arrivò senza tuoni. Solo silenzio.
Niente più cinguettii dei mercanti, né risate in piazza. Solo passi lenti e voci basse. La notizia correva come il vento tra i vicoli: la fiducia era finita. E con lei, i soldi.
Nessuno comprava più.
Le “azioni del mulino”? Nessuno le voleva. I “derivati del pane”? Solo carta. I “futures sulle pecore”? Una barzelletta che non faceva più ridere nessuno.
I tre stranieri? Spariti. Aziona aveva venduto tutto e lasciato il villaggio su un carretto dorato. Derivaldo, dicono, fuggì a cavallo verso il Nord, inseguito da debiti più veloci di lui. Di Specula, nessuna traccia: forse svanita, come le sue promesse.
Ser Finanzo restava immobile nella sua bottega, ora vuota e polverosa. I numeri non salivano più. E ogni volta che provava a contarli, sembravano sciogliersi tra le dita, come neve al sole.
I contadini tornarono ai campi, ma non c’erano semi. I pescatori tornarono al mare, ma le reti erano marce. I fabbri accesero la fornace, ma nessuno ordinava ferri.
Il popolo cominciò ad arrabbiarsi. E non solo con Finanzo. Con se stessi. Per averci creduto. Per aver abbandonato ciò che era concreto, per inseguire l’ombra di un guadagno più veloce.
In piazza, si formarono capannelli. Qualcuno voleva cacciare Finanzo. Altri volevano abbandonare il regno.
Ma fu la Regina Economilda a salire sulla fontana asciutta e parlare, con voce ferma:
“Soldonia non è perduta. Non finché scegliamo di rimettere i piedi per terra. Abbiamo ancora mani per costruire. Teste per pensare. E cuori per imparare.”
La folla tacque.
Finanzo si fece avanti, pallido come la luna.
“Io… ho sbagliato. Pensavo che far girare i soldi bastasse. Che la fiducia potesse sostituire il lavoro. Che il valore potesse nascere da sé.
Ma senza il vostro pane, la vostra lana, i vostri chiodi… io non avevo nulla.”
Poi, si tolse il cappello da contabile e lo posò a terra.
Nacque un silenzio strano. Non pesante. Ma denso.
Fu il fabbro, il primo, a parlare:
“Allora, si riparte. Ma questa volta… martello in mano.”
E lentamente, come dopo un lungo inverno, il villaggio si rimise in moto.
C’erano muri da ricostruire, campi da ripulire, mestieri da ritrovare. E fiducia da meritare.
Capitolo VIII – La rinascita


Non fu un lampo. Non fu un’idea geniale. Fu solo una zappa infilata di nuovo nella terra.
Così ricominciò tutto.
Il villaggio di Soldonia, che per un po’ aveva vissuto tra numeri e illusioni, tornò a fare ciò che sapeva: costruire. Ma con uno sguardo diverso. Non c’era più l’ossessione di crescere in fretta. Ora, si cercava di durare.
I primi tempi furono duri.
Il pane era meno. Le scorte scarseggiavano. Ma ogni pagnotta era condivisa. Ogni baratto, ragionato. E nella piazza ricominciarono a sentirsi suoni dimenticati: martelli, canti, il fruscio delle scope.
Ser Finanzo, deposti i grafici e i giochi, tornò a fare ciò che faceva all’inizio: ascoltare.
Aprì di nuovo la sua bottega, ma stavolta non la chiamò “Centro di Dinamica Creativa” né “Fondo di Crescita Liquida”. La chiamò semplicemente: “La casa del valore condiviso”.
E lì, ogni giorno, sedeva dietro al bancone con un sorriso umile, annotando con cura ogni prestito, ogni restituzione, ogni nuovo progetto. Nessuna scommessa. Solo fiducia costruita sul tempo.
“Ogni moneta prestata, torna con un granellino in più… e con il sorriso di chi l’ha usata bene.”
La Regina Economilda non volle punire nessuno. “Chi ha imparato sbagliando vale più di chi non ha mai osato,” disse.
E volle che ogni settimana, in piazza, si tenesse un’assemblea pubblica. Non per comandare, ma per ascoltare.
Fu lì che nacquero nuove idee: – Un forno condiviso, in cui ogni fornaio cuoceva il pane per il villaggio. – Una “scuola dei mestieri”, dove i giovani imparavano dal sapere dei vecchi. – Una biblioteca delle cose, dove si prestavano attrezzi, non solo libri.
Le parole cambiarono.
Non si parlava più di azioni, ma di gesti. Non di valori, ma di cura.
I bambini giocavano di nuovo con pupazzi di legno, non con miniature di titoli azionari. E il fumo, finalmente, tornò ad alzarsi dai camini.
Certo, ogni tanto qualcuno parlava ancora del tempo dei tre stranieri, ma erano in pochi. Perché ora c’era da fare.
E c’era Soldonia da far vivere. Di nuovo. Meglio di prima.
Epilogo – Il Racconto del Nonno

Il sole stava calando dietro le colline di Soldonia, tingendo i tetti di rame di un rosso lento e caldo.
Su una panchina, davanti alla fontana tornata zampillante, sedeva un vecchio dalla barba gentile, con accanto il nipotino..
“Nonno, ma è vera la storia del Gioco? Quello dei soldi che diventavano altri soldi senza passare per il pane?”
Il vecchio sorrise, guardando l’acqua che brillava.
“È vera, sì. E te la racconto per l’ultima volta, così domani la racconterai tu ai tuoi figli e poi ai tuoi nipoti”.
Il bambino si raggomitolò tra le sue braccia, con gli occhi tondi.
“Un tempo… pensavamo che bastasse credere in qualcosa perché avesse valore. Che se tutti giocavano, il gioco non sarebbe mai finito. E invece…”
“E invece?”
“E invece le pentole vuote parlano più forte dei grafici. Le mani ferme fanno più rumore dei numeri in salita.”
Fece una pausa, accarezzando i capelli del nipote.
“Ma poi abbiamo capito. Non che il gioco fosse tutto sbagliato, no. Solo che aveva bisogno di regole. E di cuore.”
“E tu, nonno… eri dentro quel gioco?”
Il vecchio annuì piano.
“Ci sono stato. Ci ho creduto. E ho anche sbagliato. Ma poi ho visto cosa conta davvero: la terra che risponde se la curi. Le persone che si fidano se non le tradisci. Le cose che si fanno e che restano.”
Il bambino guardò la piazza, piena di botteghe, di risate, di odore di pane.
“E adesso va tutto bene?”
Il vecchio non rispose subito.
“Adesso… adesso proviamo a fare le cose bene. Ogni giorno. È l’unica vera ricchezza.”
Si alzò piano, aiutandosi col bastone.
“Dai, che è ora di cena. Domani, se vuoi, ti faccio vedere il mio vecchio dado.”
“Quello del Gioco del Valore?”
“Proprio lui.”
“E ci giochiamo?”
“No, piccolo mio. Lo teniamo lì. Per ricordarci che possiamo sempre scegliere. Anche di non tirarlo.”
Fine.
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