Anna Maria Nisticò, figlia di Angelo Maria Nisticò, operaio muratore e Concetta Maria Minniti, casalinga, era la quarta di cinque fratelli tutti maschi. Aveva frequentato le prime tre classi della scuola elementare nel suo paese natio a pochi km da Catanzaro. La sua famiglia si era trasferita nel bel mezzo di un periodo in cui sembrava che i flussi migratori intra-nazionali dal sud si fossero allentati. Suo padre non aveva creduto alla durata di quella situazione. La televisione continuava vagamente a parlare di “problema del mezzogiorno” mentre scoppiava feroce e reale una guerra di indipendenza tra le varie fazioni delle ‘ndrine che volevano spartirsi le ricchezze accumulate con il traffico di stupefacenti.
Angelo era una persona pratica, aveva un mestiere che al sud non riusciva a far fruttare e se ne andò nonostante i più in quel periodo di crescente fiducia, progettassero di ritornare. Anna non percepiva tutto questo, lei non capiva i motivi e il senso di quell’addio alla terra natale, sapeva soltanto che da quando abitavano in Toscana i giocattoli e i vestiti erano aumentati a dismisura. Lei della Calabria conosceva una sola faccia. E la faccia era quella di un paesaggio a tratti incontaminato che si tuffava in un mare ancora risparmiato dai culi pallidi del turismo di massa. Lei amava il mare, la sabbia, gli scogli e gli orizzonti sconfinati. Amava il salmastro che le tirava la pelle e il sole che ne cambiava il colore. Il mare della Versilia in confronto non aveva sapore e il sole sembrava non avere effetto e comunque le dava un colore diverso, meno intenso, più tendente al rosso chiaro che al nero. Arrivava in spiaggia già sfinita dalla coda in autostrada, dalla coda per il parcheggio, dalla ricerca di uno spazio dove piantare l’ombrello. Quando finalmente ci riuscivi ti sentivi come Neil Armstrong che fissava la bandiera americana sulla Luna come a dire, qua ci siamo noi e voi fuori dalle scatole. Magari fosse stato così, perché lì non erano soli ma ammassati a centinaia, migliaia di altre persone che se ne fregavano della tua conquista. Non riusciva nemmeno a scavare una buca senza che qualche cretino passando di corsa non gli buttasse la sabbia dentro. Sparivano palette, secchielli, setacci. Non potevano fare il bagno tutti insieme perché qualcuno doveva stare di guardia alla borsa di mamma con dentro i soldi di papà e mille tipi di crema, pure quella. In calabria non ne aveva mai avuto bisogno, non sapeva nemmeno cos’era. Una diversa per ogni situazione. La max protezione per i primi giorni, una specie di scudo che avrebbe respinto anche un meteorite. Ti si appiccicava addosso e ti faceva sembrare un pupazzo di neve al sole. La protezione media, quando ormai avevi un certo rossore e quella bassa che mamma spalmava sospirando un bel “Va.. bè non si sa mai”. Poi c’era la crema doposole, la sua preferita perché nella sua inutilità era sicuramente la più comica. Secondo Concetta Maria Minniti serviva a non sbucciarti come una lucertola ma in pratica ti sbucciavi lo stesso magari un giorno più tardi ma succedeva lo stesso.
in Calabria l’umanoide da spiaggia più vicino lo intravedevi a 100 mt di distanza. Arrivava senza ombrello e spesso senza asciugamano. Si tuffava subito in acqua e una volta uscito si sdraiava al sole. Anna indisturbata, poteva fare buche profonde quanto il suo braccio, il braccio di suo fratello maggiore, il braccio di suo padre. Le piaceva un sacco scavare, più scavava e più pensava.
Una volta le capitò di pensare al giorno in cui era nata. Le dava fastidio non ricordare, nessuno gliene parlava, a parte la solita storia della cicogna a cui non aveva mai creduto e non capiva il motivo per cui gliela continuavano a propinare. Era molto più conveniente credere a Babbo Natale anche se sapeva perfettamente che quello che gli arrivava a casa era un impostore. Ma portava regali quindi si poteva anche perdonare.
Anna era una sognatrice ma aveva bisogno di ancorare quei sogni a qualcosa di esistente, tangibile e reale. Qualcosa che riuscisse a capire, un punto dal quale partire per esplorare la vita. Una cosa che gli aveva insegnato la sua terra è che la bellezza esiste e può essere ovunque in ogni luogo, cosa o persone e lei la voleva vedere.
Era per questo forse che nella nuova casa, ammassata ad altre case dal cui balcone non si scorgevano altro che tetti e muri, lei si sentiva soffocare. Non riusciva a farsela bastare. Si attaccò così all’unica cosa bella che era riuscita a scoprire.
Proprio “Lei”, la sua vicina di casa.
“Lei “era di una bellezza non immediata, non convenzionale ,oggettiva o riconoscibile da tutti. Dovevi osservarla bene per coglierla e quando la coglievi, rimanevi senza fiato. Anna ci era riuscita, se ne era accorta quasi subito e quasi subito né fu rapita. Era una certezza per lei e le bastava, nonostante la loro diversità. “Lei” stava bene tra quelle quattro case senza futuro,Anna la osservava sfrecciare in bicicletta tra quei viottoli di sanpietrini sapientemente messi in fila che solo a pensare al tempo che ci avevano messo per ordinarli in quel modo, le montava il nervoso. Era l’opposto di “Lei” ma ne era attratta in un modo che non capiva. Ma forse stava proprio qui il fascino di quello strano viaggio nel mondo interiore di “Lei”:andare a trovare la bellezza anche dove non sembra manifestarsi.



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