Il Ponte sullo Stretto: un sogno antico, un affare moderno

Il Ponte sullo Stretto di Messina. Quell’eterna chimera che da duemila anni tormenta i sogni di chi vorrebbe unire la Sicilia alla terraferma, come se fosse l’ultima frontiera della nostra modernità. I Romani ci avevano provato con zattere e ponti galleggianti, Federico II di Svevia aveva fantasticato su una passerella, e persino i Borbone nel XIX secolo avevano messo sul tavolo progetti futuristici. Ma oggi, in un’Italia che si regge a stento su un debito pubblico che sembra una montagna russa senza freni, e in piena emergenza climatica, quel sogno torna a farsi largo. Peccato che dietro a tutta questa retorica romantica ci sia molto più business che vero senso pratico.

Il progetto è il classico eterno incompiuto che ogni governo si coccola come un piccolo giocattolo da esibire. Negli anni ’60 si parlava di unire finalmente il Paese, negli anni 2000 Berlusconi lo ha ripescato per farlo diventare la bandiera del suo governo, poi è sparito nel nulla fra scandali e problemi tecnici. E oggi? Eccolo rispuntare, bello come un miraggio, con ben 13 miliardi di euro stanziati da un governo che, guarda caso, vuole lasciare un segno. Ma diciamolo chiaramente: nessuno crede davvero che questo ponte risolverà i problemi del Sud. Anzi, rischia di diventare solo una costosissima vetrina per qualche grande impresa e per quelle lobby che si nutrono di appalti milionari.

La società chiamata a costruirlo, Webuild, non è certo una piccola impresa artigiana: è un colosso che già ha le mani in pasta in grandi opere dal Kenya all’Arabia Saudita. Per loro, il Ponte sullo Stretto è un boccone succulento da sgranocchiare, con profitti potenziali da capogiro. E non dimentichiamo le banche, i fornitori di cemento e acciaio, gli studi di progettazione: una macchina da soldi ben oliata che trasforma soldi pubblici in mega-profitti privati.

Ora, se avete un minimo di buon senso, penserete: con 13 miliardi di euro si potrebbero fare tante altre cose. Come mettere in sicurezza le scuole, quelle vere, non quelle di cartone, o ammodernare migliaia di chilometri di ferrovie, o rilanciare i porti dimenticati di Sicilia e Calabria. Ma no, meglio buttare miliardi in un ponte che, se anche lo costruissero, rischia di crollare al primo terremoto un po’ serio. Perché lo Stretto di Messina è uno dei posti più sismici d’Europa, dove la terra si muove più di un ballerino scatenato. Nel 1908 un terremoto di magnitudo 7.1 distrusse Messina e Reggio Calabria, facendo decine di migliaia di vittime. Oggi gli esperti confermano che quel rischio non è sparito, ma i progettisti ci assicurano che il ponte sarà una roccia. Beh, certo, perché nessun ponte al mondo è mai stato testato per resistere a un disastro del genere… ma tranquilli, loro sanno quello che fanno.

E allora perché il governo insiste? Facile: serve consenso. Il Ponte sullo Stretto è un regalo simbolico al Sud, un’opera visibile che fa molto “guarda cosa stiamo facendo per voi”. Peccato che la Sicilia e la Calabria abbiano problemi ben più concreti: disoccupazione giovanile da record, ospedali fatiscenti, trasporti da terzo mondo e giovani che scappano via come se ci fosse una piaga. E tutto questo il ponte non lo sistemerà. Anzi, potrebbe addirittura drenare risorse preziose da servizi essenziali, lasciando la gente con un pugno di mosche in mano.

Ci sarebbe invece una soluzione semplice e meno costosa: migliorare i traghetti, modernizzare le ferrovie esistenti e potenziare i voli low-cost tra le città del Sud e il continente. Roba pratica, che funzionerebbe subito, senza fantasie futuristiche e senza mettere a rischio una delle zone più pericolose dal punto di vista sismico.

In conclusione, il Ponte sullo Stretto è più un ponte verso il passato che verso il futuro. Un simbolo che parla di ambizioni, ma anche di sprechi e interessi nascosti. Le grandi opere spesso nascondono dietro il loro luccichio una realtà ben meno glamour: soldi pubblici buttati in un calderone di promesse e interessi privati. Chi ci guadagna? Sempre e solo chi sta dietro alle grandi imprese. Chi ci perde? Noi, cittadini, che pagheremo un conto salato per decenni senza avere la certezza che quel ponte ci porti davvero da qualche parte.

Forse, invece di inseguire utopie di cemento, sarebbe il caso di costruire ponti fatti di idee concrete, investimenti reali e solidarietà sociale. Quelli sì, indispensabili per un Paese che continua a scivolare verso il baratro, mentre si ostina a guardare il mare sperando in un miracolo che non arriverà.


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