Alda Merini (Milano, 1931 – 2009) è stata una delle voci poetiche più potenti del Novecento italiano. Autrice viscerale, donna tormentata e visionaria, ha attraversato la follia, il dolore e l’emarginazione trasformandoli in parole indimenticabili. Internata per anni in ospedale psichiatrico, ha raccontato quell’esperienza senza filtri, facendo della scrittura il suo strumento di sopravvivenza e rinascita. Poetessa dei Navigli, dell’anima e dell’abisso, Merini è oggi riconosciuta come una figura simbolo di forza, autenticità e trasformazione.
Alda Merini non è stata una poetessa nel senso comodo del termine. È stata una sopravvissuta. Una donna che ha guardato il dolore negli occhi e lo ha trasformato. Non in rabbia, non in vendetta. Ma in poesia. In arte pura. In verità.
Non ha cercato protezioni, né si è mai nascosta dietro maschere rassicuranti. Alda Merini ha scritto dalla ferita, non dalla guarigione. Ha reso visibile ciò che molti preferiscono ignorare: la follia, l’abbandono, la solitudine, il corpo che soffre e l’anima che non molla. Il suo internamento in manicomio, lungo quasi un decennio, non l’ha spezzata. L’ha marchiata, sì. Ma da quella cicatrice è nato qualcosa di potente.
Merini non ha mai fatto poesia per decorare il mondo. Lei lo ha sviscerato. Ha preso l’orrore e l’ha inciso su carta. Ha dato voce a chi non poteva parlare. In questo è stata una guerriera silenziosa: nessuna spada, nessun grido, solo una penna e un’anima nuda. La sua opera più importante non è una raccolta di versi: è la sua vita stessa.
“Il manicomio mi ha tolto tutto, tranne la capacità di gridare in silenzio.”
Questa frase basterebbe da sola a spiegare il concetto di trasmutazione. Lì dove la maggior parte delle persone si sarebbe arresa, lei ha creato. Lì dove si subisce, lei ha testimoniato. Il dolore, nella sua visione, non era solo un nemico da combattere: era una materia viva da trasformare in parola.
Ogni suo verso è un atto di coraggio. Ogni poesia, una forma di resistenza.
Per questo Alda Merini non è solo una grande poetessa.
È un simbolo. Un esempio per chi ha conosciuto il buio e ha scelto comunque di scrivere, amare, vivere.
Non aveva bisogno di armature: la sua verità bastava a proteggerla.
“Le mie poesie non sono belle. Sono vere.”
E la verità, quando passa da mani come le sue, sa diventare arte.
Chi oggi lotta per non soccombere al peso della propria storia può guardare a lei.
Non come a una santa o a un mito, ma come a una donna che ce l’ha fatta.
Non a superare il dolore.
Ma a renderlo qualcosa di utile. Di luminoso. Di eterno.
Mi capita spesso di pensare al dolore come a un peso che ti schiaccia. Qualcosa che vorresti solo scrollarti di dosso. Ma poi incontri figure come Alda Merini e ti rendi conto che c’è un altro modo. Un modo che non prevede scorciatoie né illusioni: guardarlo in faccia, affrontarlo, e farlo diventare qualcosa. Lei lo ha fatto con la poesia. Io, nel mio piccolo, provo a farlo scrivendo, progettando, cercando un senso.
Non è facile. Quando ti senti svuotato, quando le parole non escono e la realtà sembra più forte di te, pensare che dal buio possa nascere bellezza sembra una presa in giro. E invece è possibile. Non subito. Non sempre. Ma è possibile.
Merini mi ricorda che anche chi è stato calpestato può parlare. Che anche chi è stato messo da parte può lasciare un segno.
E che la vera forza non è gridare più forte degli altri, ma continuare a creare anche quando nessuno ascolta.
E ora, permettetemi una riflessione.
Non è facile guardarsi dentro. Lo so. Ma è lì che si trova la vera via. Quella personale. Quella che nessuno può imporvi, ma che ognuno può cercare.
Io non ho mai detto di avere la verità in tasca.
Cerco solo, a modo mio, di ricordare che esiste un’alternativa. Che c’è sempre un’altra possibilità.
Che dentro ognuno di noi c’è una verità personale che merita ascolto.
E se anche una sola persona, leggendo queste parole, trova il coraggio di cercarla… allora il mio scrivere ha già avuto senso.

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