Fanfare in sottofondo, frecce tricolori che disegnano cuori in cielo come se l’amor patrio bastasse a coprire le buche nelle strade, e sorrisi istituzionali che odorano di cerone più che di sincerità. È il 2 giugno, festa della Repubblica. Quella stessa Repubblica che, a sentirla nominare oggi, ti viene il dubbio: ma esiste ancora, o l’abbiamo venduta in leasing a Bruxelles?
Il rituale è sempre lo stesso: il Presidente che scende le scale del Quirinale con l’aria seria da padre della patria, i politici in prima fila con lo sguardo solenne e i telefoni pronti per postare la frase ad effetto su Instagram, magari “W la Repubblica” scritto con le emoji.
Era il 1946. Gli italiani (e finalmente anche le italiane) misero una crocetta per decidere se tenersi i Savoia, quelli che avevano firmato leggi razziali e poi fatto le valigie al primo cannone, o provare a costruire una Repubblica. La scelta fu per la Repubblica, ma più per nausea che per convinzione. Come quando vomiti dopo una sbronza e giuri di smettere: non perché sei diventato astemio, ma perché ti sei rotto il fegato.
Così nacque la Repubblica. Bella sulla carta, piena di buone intenzioni: libertà, giustizia, diritti, uguaglianza. Un progetto nobile, partito con entusiasmo… e subito sequestrato da partiti che lo hanno usato come base per la loro recita lunga settant’anni. Clientelismo, corruzione, trasformismo, e ogni tanto un po’ di “mani pulite” giusto per lavare i panni sporchi con acqua minerale.
La Costituzione? Bellissima. Peccato non venga usata.
“La Repubblica è fondata sul lavoro.”
Certo. Basta riuscire a trovarne uno. O almeno uno che non ti renda povero mentre lavori.
Perché oggi il lavoro, quello tutelato e dignitoso, è diventato un miraggio da contratto in scadenza. Un part-time mascherato da tempo pieno. Una fattura da inviare “senza IVA” per non perdere il cliente. Una partita IVA aperta perché “così sei più libero”, tradotto: sei più solo e più ricattabile.
Nel frattempo, la “sovranità appartiene al popolo”, ma giusto il tempo di barrare una casella ogni tot anni, tra un algoritmo e una fake news. Poi sparisci di nuovo. Tu cittadino, sei utile per due cose: pagare le tasse e subire le decisioni. Hai bisogno di un medico? Aspetta sei mesi. Hai un problema col fisco? Arriva la cartella prima che tu riesca a spiegarti. Vuoi protestare? Fallo pure, ma senza disturbare il traffico, mi raccomando.
Il 2 giugno è il nostro Truman Show, è lo spettacolo perfetto. Un grande palcoscenico dove tutti recitano la parte del “grande amore per la Patria” purché la Patria non chieda troppo. Le Frecce Tricolori volano alte, mentre i treni regionali si fermano per un guasto al riscaldamento. Le fanfare suonano forte, mentre le scuole cadono a pezzi. Il Capo dello Stato fa il discorso sull’unità, mentre metà del Parlamento trama contro l’altra metà, e l’altra metà finge di fare opposizione.
Nel frattempo, fuori dal teatrino: le famiglie fanno la spesa col contagocce, tra scontrini e preoccupazioni. I giovani emigrano non per spirito d’avventura, ma per disperazione. I vecchi stringono la pensione tra le mani come un bottino da difendere. E le piccole imprese? Quelle resistono. Ma solo “se non si fanno troppo notare”.
Ma quindi, dobbiamo buttarla giù, questa Repubblica? No. Ma dobbiamo smetterla di crederle sulla parola.
La Repubblica non è un’icona da venerare. È un contratto da rinnovare. E se il contratto non viene rispettato, non si festeggia: si reclama. Si denuncia. Si pretende.
Il 2 giugno non dovrebbe essere una sfilata. Dovrebbe essere un check-up.
Una diagnosi. E diciamolo: lo Stato è malato. Ma il medico non lo trovi più nemmeno pagando.
E allora buon 2 giugno, ma senza ipocrisie. Auguri a chi non si accontenta delle parate, ma guarda cosa succede quando si spengono le luci.
Auguri a chi crede che “Repubblica” non sia solo una parola da ripetere nei discorsi, ma una cosa da meritare ogni giorno, con scelte, giustizia, responsabilità.
Auguri a chi non si commuove per la bandiera, ma per un gesto giusto. Un diritto garantito. Una vita dignitosa.
E se oggi celebriamo qualcosa, che sia almeno la voglia di cambiare, di risvegliarsi, di dire “non basta più”.
Perché la Repubblica non è un’entità astratta. Siamo noi.
E forse, da domani, sarebbe il caso di prendercene davvero cura.

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